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‘Il nostro attivismo? Perché la politica si è avvitata su sé stessa’


Domani, all’Assemblea generale ordinaria dell’Associazione industrie ticinesi (Aiti), Oliviero Pesenti si congederà dalla presidenza dopo un quadriennio di «intensa attività» e pronto a lasciare ai nuovi vertici che verranno eletti dai soci. Un mandato, il suo, iniziato con le ferite della pandemia ancora aperte, caratterizzato dagli sconvolgimenti geopolitici che tutti conosciamo, passando per le grandi battaglie condotte sulle finanze pubbliche, sulla formazione, sulla politica industriale. A colloquio con ‘laRegione’, Pesenti ripercorre questo periodo e ne ha per tutti: soprattutto per la politica, «sempre più incapace di mettersi d’accordo su misure di risanamento sensate e realistiche».

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Con ordine. Che bilancio trae da questi quattro anni alla presidenza di Aiti? Guardandosi indietro quali sono state le sfide più importanti che il mondo delle industrie ticinesi ha dovuto affrontare?

Sono stati quattro anni intensi, caratterizzati in particolare dalla pandemia e dalle sue conseguenze e dalle ripercussioni della guerra fra Russia e Ucraina, oltre che dalle difficoltà congiunturali e di altro genere, ad esempio l’aumento dei costi dell’energia, che si sono manifestate e che causano tuttora una crescita economica debole, certamente insoddisfacente. Queste sono le sfide che sono emerse dalla contingenza degli eventi, ma non bisogna dimenticare che a esse, per parlare piuttosto al presente e al futuro, bisogna sommare i cambiamenti strutturali in atto che incideranno sulla forza competitiva della nostra economia nei prossimi anni. Qui mi riferisco in particolare alla negativa evoluzione demografica, che porterà decine di migliaia di persone a uscire dal mercato del lavoro ticinese in pochi anni e ai cambiamenti tecnologici che investono ogni genere di impresa. La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale sono fenomeni che tutti dovranno affrontare, aziende comprese.

Tutto questo in un contesto reso molto fragile dalla pandemia. Possiamo dire che le imprese ticinesi hanno retto, ma non è che si è innescato un po’ il meccanismo mentale della richiesta, da parte di alcuni, dell’intervento statale come parte del gioco e non come evenienza straordinaria?

Direi di no, almeno per quanto concerne l’industria. Come sappiamo, ma è sempre meglio ribadirlo, la Svizzera non ha una politica industriale fatta di incentivi finanziari diretti, ed è meglio così. Nel nostro Paese si privilegia ad esempio il sostegno all’innovazione, facendo sì che le aziende partecipino ai progetti di ricerca nazionali e internazionali. Durante la pandemia lo Stato ha sì aiutato l’economia, ma prevalentemente attraverso crediti che poi dovevano essere restituiti. Quanto al lavoro ridotto, che serve per salvare i posti di lavoro, è finanziato attraverso l’assicurazione disoccupazione, dunque pagato anche dalle imprese. Per tornare all’innovazione: dato che siamo entrati in una fase di cambiamento tecnologico che vale per tutte le aziende, credo che un ripensamento del sostegno all’innovazione vada fatto perché ho paura che tante piccole e medie imprese faranno fatica a stare dietro alla necessità di migliorare ulteriormente il proprio grado d’innovazione. Gli investimenti necessari sono ingenti. E poi bisogna considerare che in altri Paesi non stanno a guardare, ad esempio nell’Unione europea a livello nazionale e regionale sono disponibili per le imprese molte risorse proprio per l’innovazione, di cui noi in Ticino ma anche in Svizzera non disponiamo o comunque ne disponiamo molto meno. Ciò rischia di sfavorire nel tempo le nostre imprese rendendole meno competitive rispetto ai concorrenti.

Parlando di risorse pubbliche, lei nell’ultimo periodo assieme al suo omologo della Camera di commercio Andrea Gehri ha spinto moltissimo sull’importanza delle finanze sane e sul recupero del deficit da parte del Cantone. Fa anche parte del comitato dell’iniziativa taglia dipendenti pubblici. Come mai si è reso necessario questo attivismo da parte del mondo economico?

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Se abbiamo deciso di muoverci direttamente, e non escludo che ciò avverrà ancora in futuro, è perché la politica cantonale si è avvitata su sé stessa e i partiti politici non sono in grado di mettersi d’accordo su misure di risanamento sensate e realistiche. Per questa ragione ci sembra ragionevole far sì che sia il popolo a dire la propria sulla strada da intraprendere. Inoltre, per restare al tema delle finanze pubbliche, pensiamo che far crescere il debito pubblico anno dopo anno e scaricarlo semplicemente sulle spalle delle future generazioni sia semplicemente irresponsabile. Spendiamo sempre più soldi per finanziare la spesa corrente quando invece dovremmo concentrarci maggiormente su investimenti produttivi per la crescita del Cantone a medio e lungo termine. Detto in altre parole, dovremmo investire maggiormente sia sull’innovazione sia sulla formazione e altro ancora. Esiste un debito “cattivo” e un debito “meno cattivo” o forse buono. Il Ticino purtroppo sembra concentrarsi piuttosto sul debito “cattivo”, cioè improduttivo per il Paese e i suoi cittadini. Noi riteniamo che i partiti, ma anche le istituzioni, dovrebbero mostrare maggiore coraggio, a costo di perdere consenso elettorale, perché quando c’è di mezzo il futuro del Cantone e della sua popolazione bisogna avere il coraggio di dire ai cittadini anche cose sgradevoli, come ad esempio risparmiare sulle prestazioni che eroga lo Stato. Siamo però d’accordo sul fatto che è necessario analizzare la spesa pubblica e proporre una sua razionalizzazione che permetta di mantenere i servizi alla popolazione a un livello soddisfacente. Siamo convinti che un margine di manovra ci sia.

Ma è anche un attivismo interpretabile come una sorta di mozione di sfiducia al governo e al parlamento, a partire dal direttore del Dfe Christian Vitta?

Noi non ne facciamo mai una questione personale e siamo consapevoli di quanto sia difficile governare il Cantone e dare un indirizzo politico e pratico solido per i prossimi anni. Ma certamente non possiamo non essere delusi nei confronti delle istituzioni. Sia perché la sensazione è quella di avere a che fare con decisori politici che non sembrano ancora avere preso atto che il Paese deve svoltare definitivamente perché le cosiddette “vacche grasse” sono finite, sia perché diversi problemi che stanno emergendo in questi anni in realtà erano già distinguibili dieci anni fa e oltre. Pensiamo alla questione demografica: già dieci anni fa e prima si poteva vedere quante persone appartenenti alla generazione del baby boom, e in particolare i nati negli anni Sessanta, se ne andranno in pensione nei prossimi anni. Non è stato fatto nulla per affrontare la questione e ora è tardi. In futuro temo che la domanda che ci porremo sarà questa: quante aziende e attività economiche sopravviveranno ancora in Ticino in mancanza di manodopera?

Ecco, a volte qua e là si sente denunciare la mancanza di una visione, di una vera politica industriale. È così anche per voi?

Aiti lo dice da tempo. Massima comprensione come dicevo per le difficoltà che devono affrontare i decisori politici, che però tendono a decidere a corto termine. I cambiamenti in atto evocati in precedenza richiedono invece una strategia di sviluppo economico e sociale a medio e lungo termine. Noi da parte nostra abbiamo cercato di dare un contributo presentando nel 2022 il nostro piano di sviluppo economico denominato “Ticino 2032”, che ora è entrato in una fase di aggiornamento e ulteriore sviluppo. Con il contributo di alcuni nostri imprenditori e dirigenti d’azienda, abbiamo cercato di mettere a fuoco diverse proposte sui temi prioritari quali la formazione e l’innovazione e più in generale le diverse condizioni quadro per fare impresa in Ticino. Parte di queste proposte sono entrate in alcune decisioni politiche, per altre stiamo cercando di convincere i decisori politici ad adottarle o quantomeno a entrare in materia. È un lavoro che richiede tempo ma che è assolutamente necessario. Per quanto ci riguarda abbiamo dunque bisogno di un vero piano industriale, non di una politica industriale. E questo piano industriale deve concernere anche eventuali mutamenti istituzionali, cioè un rimescolamento dei dipartimenti del governo, cambiamenti nella struttura e nel funzionamento dell’amministrazione pubblica, riduzione massiccia della burocrazia. Cito due temi sui quali dobbiamo lavorare in futuro tutti insieme: formazione e innovazione. Da un lato per dare ai cittadini gli strumenti necessari per svolgere al meglio la propria professione, dall’altro lato per aiutare le imprese e in particolare le Pmi ad affrontare con successo la sfida tecnologica. Come dissi all’inizio del mio mandato di presidente dell’Aiti, ancora oggi ritengo necessario un forte connubio fra economia e formazione. Il governo del Vallese ha fatto questa scelta, altri Cantoni pure. Se in Ticino non si andrà in questa direzione, quantomeno si abbia il coraggio di creare una forte intesa e strategia fra questi due dipartimenti.

Nel suo quadriennio lei ha spinto molto anche sulla formazione, e sul ruolo del Cantone nel creare profili adatti al mercato del lavoro. Ha spesso detto che di lavoro fuori ce n’è molto, e ben pagato. Basta saperlo cercare e meritare. È davvero così semplice?

Non so se ho usato proprio queste parole, ma certamente esiste una difficoltà nell’abbinare fino in fondo le professioni richieste dalle imprese e di conseguenza una parte dei posti di lavoro offerti e le competenze espresse dalle persone che lavorano o vogliono lavorare. Anche perché le professioni nel tempo evolvono e oggi ad esempio un meccanico deve avere anche competenze di elettronica e altro. Lo Stato chiede alle imprese di formare i giovani nelle professioni e di offrire posti di lavoro. Dobbiamo pur avere la libertà di dire di chi abbiamo bisogno per far funzionare le nostre aziende. Il discorso però è complesso e non può essere chiuso in poche parole. Spero non mancheranno future occasioni per approfondire un tema importantissimo.

Immagini che ci legga un giovane che non sa ancora bene che percorso formativo intraprendere. Deve seguire le sue passioni o meramente un ambito dove riceverà un buon salario tra qualche anno?

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Di principio bisogna seguire la propria passione perché essa è il motore della nostra esistenza. Poi naturalmente il giovane deve cercare di comprendere quali sono certe proprie predisposizioni. Ad esempio: sono una persona meticolosa? Prediligo la creatività? Già da qui si possono andare a vedere quali professioni potrebbero essere più congeniali di altre. Certamente bisogna anche valutare che spazi hanno le professioni e dove e quali aziende offrono delle occasioni di lavoro che potrebbero essere per me interessanti. Anche fare degli stage in azienda è un’ottima possibilità per conoscere la professione e come si muove il mondo del lavoro.



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