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il dossier sul lavoro nero


Oggi più che mai, il lavoro domestico risponde a un’esigenza privata perché garantisce cura e benessere all’interno delle famiglie ma allo stesso tempo, è anche un settore di importanza pubblica, poiché sostiene l’equilibrio della società nel suo complesso, permette la partecipazione al lavoro e impone tutele per chi lo svolge.

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Una recentissima ricerca dal titolo Lavoro domestico e formazione- Strategie per colmare il Gender Gap e valorizzare il welfare per le famiglie di Nuova Collaborazione, associazione nazionale dei datori di lavoro del comparto, indica numeri e percentuali nient’affatto incoraggianti.

È davvero elevato il dato del “nero” e troppi sono i contratti non firmati e non garantiti sul piano retributivo, fiscale e contributivo. Vediamo i numeri più interessanti dell’indagine e chiediamoci in che modo superare la piaga del sommerso nel lavoro domestico, alla luce dei suggerimenti offerti dagli autori della ricerca.

Il lavoro domestico ha il più alto tasso di “nero” in Italia

Le cifre sono impietose e, di fatto, tagliano in due il Paese: da un lato chi rispetta le regole di legge, assumendo e gestendo diligentemente il rapporto lavorativo con babysitter, colf e badanti e l’Italia dei trasgressori, di coloro che preferiscono aggirare i divieti, alimentando una sorta di economia invisibile.

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Bassi salari, contributi non pagati, tasse non versate, carichi squilibrati e non solo: le violazioni sono sempre più diffuse in un settore che risente di carovita e inflazione, ma che oggi più che mai è fondamentale per il welfare familiare.

L’indagine spiega che nel 2023 i lavoratori regolari del comparto erano 833.874 – con ben l’88,6% donne – ma le stime Istat indicano numeri ben più alti, ossia una forza lavoro effettiva che supera 1,6 milioni di persone.

Ecco perché si deduce che circa la metà lavora in condizioni di irregolarità e, quindi, senza che enti come Inps, Inail o Agenzia delle Entrate sappiano nulla circa l’avvio dell’attività di colf, badanti e babysitter.

Le famiglie che preferiscono nascondere il rapporto di lavoro rischiano però pesanti conseguenze, come ad es. sanzioni amministrative, l’obbligo di versare i contributi arretrati e gravi responsabilità in caso di infortunio sul lavoro del collaboratore domestico.

Le cause dell’irregolarità di di colf, badanti e babysitter

A pesare sulla scarsa trasparenza del lavoro domestico sono, ovviamente, vari fattori: mancanza di asili nido, centri per anziani o strutture di assistenza per persone fragili, ma anche i redditi bassi o molto bassi in alcune aree del Paese, gli oggettivi alti costi (stipendio, TFR e contributi oggi in aumento causa inflazione), la scarsa conoscenza delle regole contrattuali, la difficoltà nei controlli e nella vigilanza oppure la presenza di lavoratori stranieri in condizioni di vulnerabilità – più di 2 collaboratori domestici su 3 non sono italiani.

Inoltre, l’indagine indica che il valore aggiunto del comparto regolare è stimato in 16 miliardi di euro (0,74% del Pil), ma la spesa delle famiglie per i servizi di cura è in diminuzione dal 2014, e questo ha un duplice significato: da un lato è prova di una crescente difficoltà economica nel gestire le varie uscite mensili, compresa quella per l’assistente domestico, e dall’altro è la spia di un ricorso crescente al lavoro irregolare.

Non a caso, tra le famiglie a basso reddito – sotto la soglia dei 2mila euro mensili – l’85% ha fatto ricorso a risparmi privati o a forme di indebitamento per affrontare la spesa per il collaboratore badante.

Come mettere in regola i lavoratori domestici

Nell’ambito dello studio Lavoro domestico e formazione – Strategie per colmare il Gender Gap e valorizzare il welfare per le famiglie, oltre a indicare numeri e problematiche alla base del sommerso, Nuova Collaborazione suggerisce anche possibili soluzioni che attuino una strategia nazionale condivisa tra istituzioni, famiglie e lavoratori.

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Nuovo credito d’imposta

L’introduzione di una sorta di “zainetto fiscale”, ossia un credito d’imposta individuale, flessibile e accumulabile, potrebbe coprire i costi di cura, educazione e assistenza (come le attività sanitarie non coperte dal Ssn, educatori, assistenza specializzata, ecc.). La sua particolarità è che sarebbe trasferibile nel nucleo familiare, consentendo a un coniuge o genitore di usare quello maturato da un altro componente della famiglia.

Secondo gli autori dell’indagine, questo strumento favorirebbe un sistema più equo e semplificato, che supera la frammentazione attuale dei bonus e dà maggior spazio a prestazioni regolari.

Contributo pubblico per l’assunzione di lavoratori certificati

Un’altra soluzione per alleggerire i costi dell’assunzione regolare e per sollecitare la conciliazione vita-lavoro potrebbe essere il varo di un contributo economico pubblico, rivolto alle famiglie che assumono regolarmente lavoratori domestici certificati.

In particolare questo nuovo bonus sarebbe:

  • proporzionale all’Isee, perché le famiglie con redditi più bassi riceverebbero un aiuto maggiore;
  • legato alla condizione occupazionale e, ad esempio, famiglie in cui entrambi i genitori lavorano potrebbero ricevere più sostegno;
  • ispirato all’Assegno Unico Universale, cioè erogato in modo flessibile, mensile e senza vincoli rigidi di spesa.

Bonus per l’assunzione domestica

Incentivo diretto alla partecipazione femminile al mondo dell’occupazione, sarebbe un rimborso, spiega l’indagine, fino all’84% del costo di una babysitter o badante per le famiglie con basso Isee e lavoro full-time.

La particolarità del beneficio è che il contributo scenderebbe in proporzione a chi lavora part-time, a chi ha redditi maggiori e al numero di disoccupati in famiglia. La gestione dell’incentivo sarebbe affidata all’Inps, sfruttando le piattaforme già in uso per l’Assegno Unico Universale e il bonus colf e badanti.

Investimento nella formazione

Infine lo studio propone un piano mirato a favorire l’impiego di persone qualificate, grazie all’introduzione di un registro nazionale di lavoratori certificati accessibile via web, la standardizzazione dei percorsi formativi regionali e ulteriori incentivi per i nuclei familiari che scelgono di mettere sotto contratto lavoratori certificati.

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Lo studio denuncia la carenza di percorsi formativi omogenei e l’urgenza di rafforzare l’offerta educativa, considerato che in Italia oggi solo il 4% di colf, il 12% di badanti e il 15% di babysitter hanno certificazioni formali.

Concludendo, a fronte dei numeri visti sopra la piaga del lavoro nero per chi lavora come badante, babysitter o colf emerge in tutta la sua gravità. Riportare le attività domestiche nei binari della legalità non è solo un’esigenza privata delle famiglie, ma una questione pubblica di responsabilità sociale e coesione che potrebbe trovare efficaci soluzioni in una strategia nazionale che combini incentivi specifici, percorsi formativi strutturati e pieno riconoscimento del valore sociale del lavoro di cura.





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