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Liste d’attesa, Marinoni: “Nella sanità servono investimenti”


Nei giorni scorsi la presidente del consiglio Giorgia Meloni è tornata a parlare di uno dei temi più caldi della sanità pubblica: le liste d’attesa. “Sulla questione devo fare io un appello alle Regioni”, ha affermato la premier, sottolineando che “le risorse economiche vengono stanziate ogni anno dal Governo, ma la gestione operativa è affidata alle Regioni”. Un modello che, secondo Meloni, rischia di attribuire responsabilità al solo esecutivo, anche quando le competenze sono decentrate.

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La “colpa” delle liste d’attesa, quindi, è del governo, delle Regioni o di entrambi? Abbiamo chiesto un parere al dottor Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo.

Di chi è la colpa delle liste d’attesa?

A titolo di premessa, ritengo che sia più utile capire le cause invece di chiedersi di chi sia la colpa, ma per rispondere a questa domanda, va ricordato che il governo ha la funzione di stanziare le risorse. Su questo nodo si è discusso diverse volte e, in base a quanto è stato deciso e programmato, sono destinate a raggiungere i 145,6 miliardi di euro entro il 2030. Parallelamente a questa cifra ce n’è un’altra, ossia quella dei circa 45 miliardi di euro che gli italiani spendono annualmente per usufruire di prestazioni sanitarie che non sono coperte dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), spesso chiamate “spesa out-of-pocket”. Questi ultimi vengono pagati dai cittadini direttamente di tasca propria oppure con mediazione assicurativa, sempre al di fuori del Ssn. Lo Stato mette a disposizione il budget citato prima, le cui risorse provengono dalla fiscalità generale, ossia l’insieme delle entrate fiscali statali, raccolte in base a obblighi di leggi che non indicano già una specifica destinazione di spesa pubblica.

Che cosa significa?

Significa che non è possibile incrementarle senza toccare la fiscalità. Per avere maggiori risorse si possono ridurre l’evasione fiscale, le spese militari o si possono aumentare le tasse, ma il budget su cui si può contare è quello. È una caratteristica che ci accumuna ad altri Paesi che finanziano il Servizio Sanitario Nazionale attraverso la fiscalità generale, come Spagna, Portogallo e Regno Unito, che patiscono le nostre stesse difficoltà. La problematica è avvertita meno in nazioni come Francia e Germania perché hanno un sistema diverso, basato sulle mutue, che hanno maggior flessibilità di pagamento. In quello scenario, per esempio, le persone aumentano i contributi senza che debba esserci un incremento delle tasse, quindi l’impatto è diverso. In merito ai 45 miliardi out-of-pocket, invece, non è detto che siano spesi tutti per prestazioni sanitarie appropriate. Ci sono anche quelle non appropriate, ma anche quelle riguardanti vari settori, come la medicina estetica, la medicina naturale ecc che non potrebbero essere a carico del Ssn e l’odontoiatria, che il Servizio Sanitario Nazionale non copre. Se non fossero 45 miliardi, pertanto, potrebbero essere meno quelli che ci vorrebbero.

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E qual è il compito delle Regioni?

Alle Regioni spetta il compito di organizzare l’erogazione dei servizi: tutto quello che riguarda l’ottimizzazione delle risorse è a loro carico. I Paesi che hanno un servizio fondato sulla fiscalità generale regolano il servizio stilando delle liste d’attesa. Il ragionamento è semplice: se si deve stare entro un determinato budget si può governare la spesa solo attraverso questo strumento. Avendo un tetto alle risorse disponibili, le persone fanno l’esame quando arriva il loro turno. Ed è chiaro che per governare questo bisogna organizzarsi nel modo migliore.

Che cosa intende?

Bisogna governare la domanda, per esempio facendo leva sull’appropriatezza delle richieste, sulle linee guida, sui percorsi diagnostico-terapeutici e sulla gestione della cronicità che comporta la maggior parte delle prestazioni. Se si riesce a fare questa operazione si diminuiscono le liste d’attesa. A questo punto, entra in gioco il classico mito della riduzione degli accessi al pronto soccorso.

Come mai dice “solito mito”?

Quando si afferma che bisogna ridurre gli accessi al pronto soccorso non si capisce esattamente che cosa si voglia dire, perché la finalità della sanità non è quella di ridurre gli accessi al pronto soccorso ma curare le persone. Il punto è che l’inappropriatezza degli accessi non si può governare perché se una persona crede di avere patologie gravi e urgenti ci va. Si può agire sugli accessi appropriati, per esempio evitando che ne abbia necessità il paziente cronico scompensato, che bisogna cercare di gestire in modo alternativo per evitare che si scompensi, mettendo in campo i servizi sul territorio e in ospedale. E in genere sono i casi che impegnano maggiormente il pronto soccorso, perché si può facilmente capire che uno scompenso cardiaco è più impegnativo di una frattura.

E com’è la situazione in Lombardia?

Per la gestione delle cronicità, Regione Lombardia aveva dato vita a una progettualità importante, avviata attorno al 2010-2011 coinvolgendo molti medici di medicina generale e circa 300mila pazienti cronici. Nel tempo il numero è calato, ma questa è la più grande progettualità che ci sia stata sinora. In Lombardia, però, i pazienti cronici sono 3 milioni: bisogna considerare la bontà dell’iniziativa ma anche i volumi di prestazioni che sono necessarie per capire che cosa si può fare realmente. Servono forti investimenti sul territorio, medici di famiglia, case di comunità che funzionino e specialistica ambulatoriale: tutte cose che oggi non ci sono pienamente.

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La responsabilità è della Regione?

Parzialmente. Se i medici di medicina generale a Bergamo dovrebbero essere 400 in più e non ci sono non è colpa della Regione, ma se avesse reso più attraente la professione del medico di base avrebbe aiutato. Come dicevo, però, ritengo che invece di cercare le colpe si debba individuare quali siano le cause.

Quali sono?

Servono più investimenti e bisogna gestire al meglio le risorse. Il problema è la carenza di governance: ce ne vorrebbe una migliore sia a livello ospedaliero sia sul territorio, non solo e non tanto ai vertici ma anche nei piani intermedi. E i contratti con gli erogatori dovrebbero essere orientati alle prestazioni più necessarie, non a quelle più remunerative. Non è solo questione di aumentare la spesa, ma di gestire al meglio le risorse, perché se non abbiamo un’adeguata governance delle prestazioni rischiamo di innescare una spirale in cui aumentano le prestazioni inutili e i soldi vengono spesi in modo non virtuoso. Quindi, bisogna governare anche la domanda.

Che cosa bisogna fare?

Lavorare tutti assieme per migliorare l’efficienza del servizio, ma quando si escludono i professionisti dalle decisioni, quando si vociferano scenari come quello della dipendenza dei medici di base, quando non si dicono queste cose ai cittadini ma li si convince che abbiano diritto a tutto per raccogliere consenso e sperare che vada contro il muro solo chi ha bisogno mentre la maggioranza continui a portare consenso non si va verso una gestione positiva del servizio ma si cerca consenso immediato. Per esempio, affermare che si eroghino prestazioni anche la domenica e nei giorni festivi si dice qualcosa che forse può avere vantaggio per i pazienti che lavorano, ma se si sostiene che in questo modo si risolverà il problema delle liste d’attesa si afferma una stupidaggine perché in realtà le prestazioni rimangono quelle di prima. Avendo le stesse risorse umane ed economiche, per coprire la domenica verranno eseguite meno in un altro giorno e non saranno effettuate in misura maggiore. Analogamente, è necessario fare attenzione quando si parla dell’eliminzione dell’intramoenia.

Ci spieghi.

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L’intramoenia è l’attività da libero professionista svolta dai medici ospedalieri. Bisogna certamente controllare che non ci siano anomalie e servono regole chiare, perché non deve diventare prevalente rispetto all’attività dovuta al rapporto di lavoro con l’ospedale, ma se si toglie questo incentivo il medico ospedaliero andrà a lavorare nel privato accreditato dove tale possibilità c’è. Si incrementerebbe, così, la fuga dagli ospedali. Bisogna avere la capacità manageriale di regolamentare questi aspetti ed è quello che manca.

Per concludere, il problema è nei vertici?

I fattori che incidono sono parecchi e non si possono ridurre a una componente. Sicuramente i direttori generali sono figure chiave, ma bisogna vedere che indicazioni arrivano dalla Regione, le condizioni di lavoro in cui si trovano e come si muovono gli assessorati. Di certo, se si ritarda la stipula dell’accordo integrativo regionale, non si fa la nuova convenzione nazionale per le case di comunità, non si incentivano i medici che si organizzano in modo migliore e danno più disponibilità nelle aree interne, non solo in quelle cittadine, non si favoriscono le zone dove ci sono i bisogni. Fa riflettere il fatto che Regione Lombardia abbia siglato una convenzione con i Nas per controllare le procedure delle liste d’attesa, perché è lavoro che dovrebbe fare l’Ats.

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