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Stretta sulla stampa, Trump blocca i fondi alle reti pubbliche


Con il solito decreto esecutivo, emesso stavolta a tarda sera, Donald Trump ha «ordinato» di cessare il d finanziamento di radio e televisione pubblica. La National Public Radio (Npr) raggiunge un’audience di circa 42 milioni di ascoltatori giornalieri con oltre 1.000 emittenti su tutto il territorio nazionale. La tv pubblica Pbs è nota per i programmi educativi come lo storico Sesame Street. Secondo l’ordine di Trump le emittenti sarebbero tendenziose e quindi non meritorie del finanziamento da parte dei contribuenti (i quali ammontano a circa 500 milioni di dollari all’anno). Npr e Pbs hanno annunciato un ricorso legale, confutando l’autorità del presidente di intervenire d’ufficio sullo stanziamento di fondi stabilito dal Congresso. Una simile azione era stata già intrapresa nei confronti dell’emittente Voice of America (operata dal dipartimento di Stato). Un giudice ne aveva successivamente temporaneamente bloccato la chiusura.

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ANCHE SE LE EMITTENTI ottenessero un’ingiunzione legale, paiono tuttavia complicarsi le prospettive di futuri stanziamenti in un Congresso controllato dal Gop, un partito da tempo insofferente ai canoni radiotelevisivi. In precedenza, la direttrice del Cpb era stata convocata per un’udienza di stampo maccartista in cui la parlamentare ultra Maga Marjorie Taylor Greene aveva accusato l’amministratrice di presiedere un’organizzazione «comunista».

L’azione rappresenta un’escalation dell’attacco frontale alla stampa, sin dall’inizio definita «nemica del popolo» nella retorica nazionalpopolare di Trump. Il regime neoreazionario è predicato sulla bolla disinformativa sostenuta da canali come Fox News e da una galassia di emittenti e podcast complottisti e pseudo informativi. In questo modello il giornalismo professionale, basato su dati e fatti, viene riproposto come «opinione avversaria», passibile di rettifica da parte del regime. Un’operazione di distorsione simile a quella diretta contro scienza, cultura ed università dove la destra rivendica una «par condicio».

L’OPERAZIONE è apparente nella stampa accreditata alla Casa bianca, dalla cui briefing room sono stati espulsi organi come la Associated Press a favore di podcast ideologici. La portavoce Katherine Leavitt ha annunciato una «dovuta alternanza» con la stampa «mainstream» e di recente ha preso a condurre conferenze stampa riservate ad influencer di destra in cui le domande sono sostituite da elogi e complimenti reciproci.

Oltre alle ritorsioni e gli attacchi espliciti, Trump sta applicando forti pressioni, minacciando querele a testate per presunta faziosità. Di recente ha perfino paventato azioni legali contro sondaggi a lui sfavorevoli. Pur se in palese contraddizione con a libertà di stampa garantita dal primo emendamento, le minacce hanno indotto emittenti come Abc (proprietà Disney) e Cbs a patteggiare risarcimenti diretti al presidente. Quest’ultima non ha voluto correre il rischio di un’interferenza presidenziale nella delicata operazione di fusione della casa madre Paramount con il conglomerato Skydance (proprietà dei trumpisti David e Larry Ellison).

LA SCORSA settimana hanno fatto scalpore le dimissioni di Bill Owens, direttore editoriale di 60 Minutes – il più prestigioso programma investigativo della Cbs -, che ha denunciato una «atmosfera non più consona all’indipendenza precedentemente garantita dall’emittente», riferimento alle pressioni ricevute per moderare le critiche all’amministrazione. La denuncia è stata ripresa in onda dal conduttore del programma. Intanto un’intervista a Trump condotta da Terry Moran per la Abc è degenerata in polemica quando il giornalista ha incalzato il presidente sul caso di Kilmar Abrego Garcia, il richiedente asilo deportato «per errore» in El Salvador. «Terry, Terry! Che stai facendo? Sei qui a fare l’intervista della tua carriera, ti ho scelto io …» ha sbottato il presidente nel passaggio più teso. «Sei davvero deludente, cosa ti costa (concordare con me). Basta dire: ‘Sì è vero’ E poi passiamo oltre…».

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L’INSUBORDINAZIONE di Moran è sintomatica della resistenza di molti giornalisti, ma le proprietà hanno in molti casi preferito «l’ubbidienza preventiva». Durante la campagna elettorale, ad esempio, le decisioni di Washington Post e Los Angeles Times di cassare gli endorsement a Kamala Harris concordati alle redazioni. I giornali sono rispettivamente di proprietà ai Jeff Bezos e del miliardario sudafricano Patrick Soon-Shiong.

Complessivamente l’attacco alla stampa rappresenta un fronte strategico nell’affondo del regime per soggiogare gli apparati democratici del paese. Un simposio organizzato la scorsa settimana dal Center for Journalism and Democracy ha riunito alla Howard University giornalisti dimissionari e licenziati dalle rispettive testate per motivi politici. Nella sua relazione, la giornalista e docente Nikole Hannah-Jones ha definito i recenti attacchi «più pericolosi che in precedenza» sostenendo che la stampa ormai non è più solo chiamata a fare la «cronaca della democrazia, ma a difenderla».



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