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La vera rivoluzione passa per forza dalla consapevolezza


Trecentoventottomila imprese attive, un valore di oltre cinquantanove miliardi di euro e un milione e mezzo di occupati: sono i numeri della ristorazione italiana, fotografati nell’ultima giornata dedicata al settore e organizzata da Fipe-Confcommercio. Numeri che evidenziano una crescita costante del comparto, in grado di dare un forte supporto allo sviluppo economico del Paese, grazie anche all’appeal che il cibo italiano riveste nel mondo (oltre undici miliardi sono stati gli euro spesi dagli stranieri in vacanza per mangiare nei nostri ristoranti lo scorso anno), ma che in qualche modo rivelano anche una situazione fatta anche di problemi difficili da non notare e da non mettere sul banco degli imputati. Un quadro normativo troppo frammentato, un eccesso di offerta e una mancanza di politiche precise e puntuali stanno portando, infatti, il settore a vivere momenti sicuramente non facili. 

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Durante la fiera di Tuttofood a Milano lo scorso mese, infatti, si è parlato anche di occupazione. «La ristorazione è il terminale della filiera agroalimentare, ma anche il suo primo interprete verso il consumatore» ha dichiarato infatti Luciano Sbraga, direttore del Centro Studi di Fipe-Confcommercio. «Se vogliamo una filiera forte, innovativa e coesa, dobbiamo partire dalla qualità delle persone: motivazione, competenze e formazione continua. È questa la condizione per fare della ristorazione un motore di sviluppo sostenibile per tutto il comparto». E di questo si è parlato anche durante il Festival di Gastronomika. Il tema generale del cambiamento, infatti, non può essere estraneo al mondo del lavoro, soprattutto in un settore come questo che spesso ha i riflettori puntati e fa discutere, tanto da dividere le platee animate dalla stessa passione del tifo da stadio. 

«Il Covid ci ha insegnato che il mondo della ristorazione è un settore buono. Ma è anche un settore economico, come tanti altri, che ha marginalità bassissime e bisogna dirselo per capire quando si parla di lavoro e di prezzi». Le parole di Andrea Chiriatti, responsabile Lavoro delle Relazioni Sindacali, Previdenziali e Formazione di Fipe, non lasciano spazio a molti dubbi: bisogna smettere di considerare la ristorazione come un settore a parte e capire che è inserita in un sistema economico più ampio, ma che soprattutto non è una gallina dalle uova d’oro, ma un settore pieno di rischi e dove difficilmente si può pensare di arricchirsi. È l’inconsapevolezza il primo motivo per cui in Italia continuano ad aprire nuove insegne, quasi questo fosse l’unico modo per sbarcare il lunario e farlo in modo soddisfacente. 

«Gli imprenditori giocano a un Tetris, dove devono darsi da fare per trovare le persone giuste, metterle al momento giusto, fargli avere l’orario di lavoro giusto, fare in modo che non se ne vadano, motivarle. Eppure siamo in un’economia in cui il mercato del lavoro è paralizzato, ha ribaltato la piramide rispetto agli anni in cui le persone cercavano disperatamente anche uno stage a zero euro: adesso ci troviamo nella situazione esattamente opposta». Il Covid ha cambiato le carte in tavola, le nuove generazioni lo hanno fatto, è cambiata la mentalità delle persone e anche la concezione del lavoro. E forse è cambiato anche il modo in cui questo settore viene raccontato a livello giornalistico. 

Foto di Gaia Menchicchi

Dettagli che però non possono tralasciarne un altro, spesso fondamentale: non sempre gli chef sono anche imprenditori e questo porta a uno scollamento tra quello che è e quello che dovrebbe essere. Daniel Canzian è l’esempio della buona ristorazione, quella che funziona. È il presidente europeo di JRE, associazione internazionale che riunisce proprio gli chef imprenditori, e patron del ristorante a Milano che porta il suo nome. «La  ristorazione — dice — è imprenditoria: un’azienda, quindi una formula di business che deve avere una serie di metriche sulla quale si deve agire, al netto di quello che può essere. Il pre-Covid presupponeva il fatto che io avessi solo necessità di mettere in campo le mie emozioni, perché comunque in un modo o nell’altro, e con un po’ di sostentamento economico, sarei diventato lo chef-star di turno. Il post-Covid ci ha messo davanti a una condizione tale per cui si è scoperto che questo è un lavoro faticoso e che richiede un livello alto di professionalità». Ancora una volta cambiamento, di epoche, di pensieri, di sostenibilità economica e di prospettive. 

Foto di Gaia Menchicchi

Eppure, Massimo Raugi, direttore del tre stelle Michelin Villa Crespi di Antonino Cannavacciuolo, racconta una realtà diversa: «La gente è sempre arrivata ed è sempre andata via dai ristoranti, più o meno con lo stesso ritmo di oggi, quindi non ci spaventiamo, è tutto regolare, è tutto nella norma. Tutti i lavori che si fanno in piedi e hanno a che fare con il pubblico fanno fatica. La fioraia non la vuole fare più nessuno, il parrucchiere lo stesso: ci sono un po’ di difficoltà, quindi forse ci sono domande più importanti da farsi. Il mio consiglio è di scegliere con attenzione il proprio percorso, poi si entra in un viaggio fatto di etica, di educazione, di pensiero. Ci sta un momento di confusione, perché tutti abbiamo delle aree di miglioramento, però il motivo per il quale ho scelto quel lavoro deve essere chiaro nel momento in cui si fa questa scelta.  È la verità, questo va detto, servono grandissime competenze. La verità è che questo è un mestiere veramente difficilissimo da fare. E sono tre le cose fondamentalmente che funzionano: la passione, quella che ti fa sentire molto meno dolore e fatica, conoscenza e organizzazione».

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Foto di Gaia Menchicchi

Forse in un’epoca precendente questi erano elementi che non venivano considerati più di tanto e probabilmente è ciò che ha reso, a tratti, malato questo settore: basti pensare a quanti giovani facciano, per esempio, il cameriere per pagarsi gli studi o avere qualche soldo in tasca. Lavori accettati (e offerti!) senza cognizione di causa e preparazione. Di passione non parliamone neppure! Il cambiamento vero deve partire da qui. Da una rivoluzione di settore che non può riguardare solo la piccolissima nicchia del fine dining, ma che deve partire dal basso, restituendo valore alle persone e al loro lavoro. Solo così non ci sarà più carenza di personale e si vedranno le cose così come dovrebbero essere, senza mitizzazione, falsi miti ed errate rappresentazioni della realtà. 



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