Marco Daviddi, managing partner di EY-Parthenon Italia, siamo tutti in cerca di una bussola per capire dove sta andando il mondo. Più dei dazi, che sono altalenanti tra annunci e sospensioni, quello che impatta di più è l’incertezza. Come si può navigare in questa nuova epoca dell’incertezza?
«Lei ha colto un punto importante. Bisogna provare a riflettere sugli elementi alla base di questa incertezza. Che non sono solo i dazi, ma questioni più evidenti».
Cosa le sembra evidente?
«La grande incertezza, almeno per noi europei, è cercare di capire che ruolo vorranno avere gli Stati Uniti nel contesto mondiale. Questo riguarda certamente il commercio, ma c’è anche il tema legato al ruolo degli Stati Uniti di ambasciatori di una visione occidentale comune. Non è chiaro se all’America interessa ancora esercitare questa prerogativa».
L’Europa deve prepararsi a camminare sulle sue gambe, a partire dalla Difesa?
«Credo sia un punto sostanziale. Non possiamo più permetterci in questo scenario un’Europa frammentata da un punto di vista politico, decisionale, di politica della difesa, di politica estera ed anche con delle regole forse oggi non più attuali rispetto agli interscambi commerciali all’interno dello stesso Vecchio Continente».
Voi di EY avete fatto due sondaggi, molto interessanti e credo significativi, tra grandi manager. Uno a novembre-dicembre dello scorso anno e uno tra marzo e aprile 2025. Alla fine dello scorso anno il 90% degli intervistati aveva un sentiment positivo. Trump era già stato eletto. Poi dal 2 aprile, dal liberation day, il sentiment è crollato. Come si spiega un cambiamento così repentino?
«Trump, sin dalla campagna elettorale, ha portato avanti una serie di annunci sugli atti dei primi 100 giorni da presidente. Erano improntati sullo slogan Make America Great Again, quindi politiche protezioniste dal punto di vista dei mercati, così come anche le politiche relative all’immigrazione, o il ruolo nelle varie crisi internazionali. Ma nella percezione dei manager internazionali era prevalsa l’aspettativa di politiche di espansione e a supporto della crescita economica. A partire dal suo insediamento, le dichiarazioni della campagna elettorale si sono progressivamente trasformate in norme. Fino ad arrivare al 2 aprile dove c’è stata la materializzazione di un rischio percepito. Questo ha gettato un po’ tutti nel panico».
Questi dazi assomigliano molto a una guerra “psicologica”, tanto che qualcuno li ha definiti “psicodazi”. Ma gli effetti sono reali?
«Sì, è vero. Questa definizione è condivisibile. Per il sistema Italia sono rilevanti ma non determinanti». Cosa vuole dire?
«Noi abbiamo un interscambio commerciale con gli Stati Uniti che vale all’incirca una sessantina di miliardi all’anno, peraltro abbastanza concentrati in settori dove c’è una domanda nel mercato americano che è abbastanza elastica rispetto al prezzo».
Gli vendiamo Ferrari, yacht, vini pregiati, formaggi?
«Esportiamo un’ampia gamma di prodotti, in particolare nel settore agroalimentare e in quello dei macchinari altamente tecnologici. Recentemente abbiamo organizzato un convegno con Oxford Economics e rappresentanti di aziende in settori strategici ed esposti al tema dazi e sono emersi temi molto interessanti di cui vorrei citare un esempio. Se una bottiglia di vino italiano fosse soggetta ad un dazio del 100%, questo si applica solo sul valore di importazione, che è uno dei componenti che contribuisce a formare il prezzo finale, considerando tutti i costi (logistica, distribuzione, marketing), quindi l’impatto reale sarebbe molto più contenuto. È importante quindi non sovrastimare l’impatto reale dei dazi sulle nostre esportazioni. Ci sono anche margini di ottimizzazione dei costi della filiera e poi il mercato statunitense non è mai stato il nostro mercato di sbocco principale, è l’Europa».
Vendiamo tanto in Germania, che sta rallentando?
«La Germania certo, ma vendiamo anche molto in Francia e negli ultimi anni sono cresciuti molto anche il continente africano, il Medio Oriente. C’è una buona capacità da parte delle nostre imprese di guardare ad altri mercati, anche con il supporto delle nostre istituzioni. L’attenzione potrebbe concentrarsi su un altro punto».
Quale?
«Gli “psicodazi”, come li ha definiti lei, determinano quell’incertezza che frena gli investimenti rispetto a decisioni strategiche, e purtroppo è quello che sta avvenendo adesso. Vengono messi in secondo piano progetti che sono straordinariamente rilevanti da un punto di vista di trasformazione delle nostre economie, dei nostri business, delle nostre aziende, come l’intelligenza artificiale, la lotta al cambiamento climatico e il tema energia».
I dazi ci stanno distraendo da tutto questo?
«È così».
Parliamo di Roma e del Lazio. Si tratta di territori che hanno un’economia molto legata alle esportazioni. C’è una farmaceutica molto forte, un’industria della difesa frizzante. I dazi sono soltanto un rischio oppure in questo contesto che si è creato ci sono anche delle opportunità?
«Ho una grande fiducia nelle imprese italiane, nella loro capacità di adattarsi anche a questo contesto. E lo stiamo vedendo nei numeri, che stanno tenendo rispetto a quello che è lo scenario in trasformazione. Soprattutto stiamo dimostrando di riuscire ad avere una crescita quando altre grandi economie europee fanno decisamente più fatica. Roma e il Lazio hanno alcune caratteristiche da un punto di vista di tessuto economico che oggi possono essere assolutamente delle leve di crescita significative, e che vanno al di là di dell’economia dei servizi e del turismo che continuano ad avere un andamento decisamente positivo. Lei ha citato due settori che sono due eccellenze nel nostro Paese, il farmaceutico e la difesa dove a Roma ci sono veramente moltissime aziende e moltissime opportunità. Nel nostro recente report il settore della difesa in Italia è indicato certamente come un’eccellenza, abbiamo dei grandi capofila come Leonardo, che poi hanno alle spalle delle filiere produttive decisamente molto interessanti. E’ un settore però estremamente frammentato mentre quello farmaceutico è più concentrato anche per la presenza comunque di grandi player internazionali. Bisognerebbe in qualche modo favorire delle ipotesi di concentrazione, che non vuol dire in logiche M&A, ma lavorare sempre di più in una logica di filiera dove si condividono anche gli investimenti soprattutto in ricerca e sviluppo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link