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Jobs Act, cos’è cambiato con la riforma del lavoro di Renzi e perché è ancora contestata dopo 10 anni


La riforma del Jobs Act rappresenta uno dei capitoli più controversi della politica italiana contemporanea, al punto che tra poche settimane gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi definitivamente sul suo destino attraverso il referendum del 8 e 9 giugno 2025. La legge, voluta dal governo di Matteo Renzi nel 2014 e completata nel 2016, modificò profondamente il diritto del lavoro italiano attraverso otto decreti attuativi. Tuttavia il tema più caldo rimase l’abolizione di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma che dal 1970 garantiva la reintegrazione nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati illegittimamente. Una modifica che per motivi storici e politici finì per catalizzare l’opposizione all’intera riforma.

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Cosa è e come nasce il Jobs Act

Il Jobs Act nacque dalla crisi economica del 2008 e nella pressione europea per riforme strutturali che rendessero il mercato del lavoro italiano più flessibile. Quando Matteo Renzi divenne primo ministro nel febbraio 2014, infatti, il paese si trovava ad affrontare un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40% e una crescita economica stagnante da oltre un decennio. Il giovane leader del Partito democratico decise quindi di puntare tutto su una riforma del mercato del lavoro che prometteva di stimolare le assunzioni e rendere meno costoso per le aziende licenziare i dipendenti. Il nome stesso della riforma, del resto, tradiva le ambizioni dell’esecutivo: ispirandosi al Jobs Act dell’amministrazione Obama del 2012, Renzi voleva segnalare la volontà di modernizzare l’Italia seguendo l’esempio americano di flessibilità e dinamismo economico. La strategia politica era chiara: superare quello che veniva percepito come un vincolo strutturale all’occupazione rappresentato dalle tutele eccessive dei lavoratori, in particolare dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che garantiva la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Il governo Renzi presentò ufficialmente la proposta nel settembre 2014, fatto che scatenò immediatamente una forte opposizione da parte della Cgil e della sinistra interna del Pd.

La proposta scatenò immediate opposizioni: la Cgil organizzò manifestazioni di massa che arrivarono a coinvolgere quasi un milione di persone nell’ottobre 2014, mentre in Parlamento si aprì una battaglia particolarmente aspra. Nonostante le resistenze, tuttavia, il governo riuscì a far approvare la legge delega il 3 dicembre 2014, aprendo la strada agli otto decreti attuativi che avrebbero dato forma concreta alla riforma. La legge numero 183 del 10 dicembre 2014 delegava infatti al governo il potere di riscrivere gran parte della disciplina del rapporto di lavoro, dal contratto a tempo indeterminato alle politiche attive, dagli ammortizzatori sociali alla conciliazione vita-lavoro. Le principali innovazioni introdotte dalla riforma furono il contratto a tutele crescenti, che sostituì l’articolo 18 per i nuovi assunti con un sistema di indennizzi economici proporzionali all’anzianità di servizio, e una riorganizzazione completa degli ammortizzatori sociali con l’introduzione della Naspi (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego). Inoltre, il Jobs Act liberalizzò i contratti a tempo determinato ed eliminò l’obbligo di causale per i primi 36 mesi, una delle modifiche più controverse dell’intera riforma e che sarà anch’essa sottoposta a referendum di domenica e lunedì (terzo quesito). Il governo stanziò inoltre quasi 2 miliardi di euro di incentivi fiscali per incoraggiare le aziende ad assumere con contratti a tempo indeterminato.

L’articolo 18: dalla nascita al referendum, storia di una norma che divide l’Italia

Il dibattito sull’articolo 18 è sempre stato particolarmente aspro, per via delle profonde implicazioni storico-politiche che vanno oltre il piano strettamente giuridico. Introdotto con la legge numero 300 del 20 maggio 1970, lo Statuto dei lavoratori nacque in un contesto di forte rinnovamento sociale e politico, segnato dall’apice della forza contrattuale del movimento operaio. L’articolo 18 prevedeva che, nelle aziende con più di 15 dipendenti, un licenziamento illegittimo comportasse non solo un risarcimento economico, ma anche la reintegrazione del lavoratore, configurando quella che i giuristi definiscono “tutela reale”. Per oltre quarant’anni questa norma rimase sostanzialmente intoccabile, al punto che divenne un simbolo identitario della sinistra italiana e un punto di riferimento per il movimento sindacale. Le prime modifiche significative arrivarono soltanto nel 2012 con la riforma Fornero del governo Monti, riforma che già restrinse le possibilità di reintegrazione per i licenziamenti economici e introdusse quella che venne definita “tutela obbligatoria” basata su indennizzi monetari. Tuttavia, quella riforma non toccò i lavoratori già assunti e mantenne comunque ampi spazi per la reintegrazione, del resto conservando l’impianto originario dell’articolo 18 per la maggior parte delle fattispecie di licenziamento illegittimo.

Il vero colpo di grazia all’articolo 18 arrivò proprio con il Jobs Act di Renzi, infatti, che per tutti i nuovi assunti dopo il 7 marzo 2015 introdusse il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”. La logica che guidò questa scelta era chiara: secondo il governo, la certezza di poter licenziare senza il rischio della reintegrazione avrebbe incoraggiato le aziende ad assumere con contratti stabili, superando così il paradosso per cui la protezione eccessiva dei lavoratori finiva per scoraggiare le assunzioni e alimentare la precarietà. Questo nuovo regime, inoltre, eliminò completamente la possibilità di reintegrazione per i licenziamenti economici e la limitò drasticamente per quelli disciplinari, sostituendola con un sistema di indennizzi che crescevano con l’anzianità di servizio fino a un massimo di 36 mensilità.



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