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La dura vita degli italiani che vogliono produrre in America ora che c’è Donald Trump


I dazi agitati da Donald Trump spingono molte aziende italiane a realizzare nuovi impianti negli Stati Uniti. Ma ci sono problemi da risolvere.

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E se Donald Trump avesse ragione? La minaccia del presidente di alzare un muro di dazi contro il resto del mondo ha, tra i suoi obiettivi, anche quello di riportare fabbriche e lavoro negli Stati Uniti, spingendo le imprese americane e straniere a investire nel Paese per evitare le tariffe, seppur ridotte rispetto agli annunci iniziali. E qualche risultato lo sta ottenendo. A partire dalle aziende statunitensi: come Ibm, che ha annunciato nuovi investimenti negli Usa, o Pfizer, che dovrebbe trasferire la produzione da stabilimenti esteri a quelli già esistenti in patria. Anche Eli Lilly, colosso farmaceutico, e Schneider Electric, produttore di apparecchiature elettriche, hanno recentemente manifestato l’intenzione di fare altrettanto per mitigare l’impatto delle misure protezionistiche. Pur in un quadro mutevole, molti gruppi stranieri hanno seguito la stessa direzione. Hyundai potenzierà il suo Metaplant in Georgia per veicoli elettrici e ibridi, pianificando un nuovo impianto siderurgico da 5,8 miliardi di dollari in Louisiana, dichiarando la localizzazione statunitense il «modo migliore» per affrontare i dazi. Honda sposterà la produzione della Civic ibrida dal Giappone all’Indiana. Volkswagen starebbe valutando di stabilire siti produttivi negli States per Audi e Porsche. Samsung sta investendo circa 45 miliardi di dollari in nuovi impianti in Texas per la realizzazione di chip mentre dovrebbe spostare la fabbricazione di frigoriferi dal Messico al suo stabilimento in Tennessee.

La tendenza a rafforzare la presenza negli Stati Uniti riguarda naturalmente anche le imprese italiane. Negli ultimi anni, non solo i grandi gruppi industriali ma anche una crescente schiera di piccole e medie imprese hanno messo radici in America. Nel 2022, secondo Confindustria, le aziende tricolori che avevano sedi negli Stati Uniti erano 3.194 e davano lavoro a poco più di 156 mila persone, di cui 75 mila nell’industria e 80 mila nei servizi. Tra i grandi gruppi che hanno consolidato la loro presenza negli Stati Uniti, spiccano Pirelli, leader nella produzione di pneumatici con stabilimenti in Georgia; Prysmian, che nel settore dei cavi per energia e tlc conta più di una decina di impianti; Stellantis, che attraverso marchi come Jeep e Chrysler opera con una vasta rete commerciale e industriale; Ferrero, che nel settore alimentare ha una solida base in New Jersey. Producono negli Usa anche Brembo, EssilorLuxottica, Interpump Group, Barilla, Campari, Rana, Granarolo, Mapei, Menarini, Chiesi Farmaceutici, Beretta armi, Brugola (vedere approfondimento in alto), tanto per citare i nomi più noti. E poi ci sono tutte quelle che esportano in America e temono di vedere crollare le vendite.

Alcune nostre società hanno già previsto di avviare l’attività oltreoceano per rispondere alla minaccia dei dazi: secondo un sondaggio di Intesa Sanpaolo, il 29 per cento delle nostre imprese sta valutando l’apertura di filiali produttive. Questo fenomeno riguarda soprattutto i settori più esposti come automotive, farmaceutico, alimentare, macchine per la produzione e tessile-moda, che vedono nell’investimento diretto negli Usa una strategia efficace per continuare a competere sul mercato americano. Stellantis investirà cinque miliardi di dollari negli Stati Uniti includendo la riapertura di uno stabilimento di assemblaggio in Illinois. Comer Industries triplicherà la superficie dello stabilimento di Rockford (Illinois), con l’obiettivo di raddoppiare il fatturato Usa in cinque anni. Alessandro Riello, presidente di Aermec, l’azienda della climatizzazione con sede a Bevilacqua, nel Veronese, ha già confermato che « faremo lo stabilimento negli Usa. L’obiettivo è iniziare a produrre dal gennaio 2028». Mentre il gruppo Sila, specializzato in componentistica per l’auto, è in trattativa per rilevare un impianto nel Midwest. Altri sono più prudenti, in attesa di evoluzioni. Campari sta valutando opportunità per espandere la sua produzione negli Stati Uniti. Sulla medesima linea Lavazza e Illy. 

Anche EssilorLuxottica potrebbe spostare parte della propria attività negli Stati Uniti come conseguenza delle misure trumpiane. Il ceo del gruppo di occhialeria Francesco Milleri ha detto nel corso dell’assemblea dei soci che «quando la situazione si stabilizzerà capiremo quale tipo di produzione potremo spostare negli Stati Uniti, perché non è solo una questione di tempi e di investimenti, ma anche di trovare (lavoratori con) le giuste capacità». Milleri ha toccato un punto delicato, cioè la mancanza negli Usa di personale qualificato: un problema denunciato anche da Brugola nell’intervista qui sopra. E non è l’unico ostacolo  per le aziende che producono negli States. L’Economist avverte che «trasferire le fabbriche in America sarà più difficile di quanto l’amministrazione si aspetti». E, paradossalmente, proprio le sue politiche renderanno la situazione ancora più ardua. Primo, l’offerta di manodopera. Nonostante la retribuzione media di un operaio statunitense sia il doppio rispetto a quella cinese e quasi sei volte quella vietnamita, i salari non attirano abbastanza americani. Un quinto delle fabbriche, secondo il Census Bureau, non trova gli operai  necessari. Secondo, la difficoltà di costruire fabbriche. La spesa per realizzare impianti è raddoppiata (al netto dell’inflazione) negli ultimi quattro anni, spinta anche da sussidi per chip e tecnologie verdi. Molti progetti, però, sono in ritardo o accantonati. Solvay (chimica) ha sospeso un impianto in Arizona; Pallidus (componenti per chip) ha cancellato una fabbrica nella Carolina del Sud.

Terzo, infrastrutture inadeguate. Gran parte della rete elettrica, datata anni Sessanta-Settanta, è a fine vita, contribuendo a frequenti blackout. Nuovi allacciamenti richiedono anni. Le infrastrutture di trasporto non sono migliori: un ponte su tre necessita di riparazioni. Invece di risolvere questi problemi, il presidente Usa sembra destinato a complicare ulteriormente la produzione in America. I suoi tentativi di reprimere l’immigrazione rischiano di peggiorare la carenza di manodopera in fabbriche e cantieri. I suoi dazi aumentano il costo di tutto, dall’acciaio per gli impianti ai macchinari, oltre a rendere più costoso importare materie prime e componenti.

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Dunque, Trump ha ragione? L’impulso al «reshoring», stimolato dai dazi, è reale. Tuttavia, una rinascita manifatturiera americana guidata solo dal protezionismo si scontra con una realtà complessa. Se l’intento di rafforzare l’economia interna è comprensibile, gli strumenti adottati rivelano una visione parziale di fronte a sfide sistemiche che i soli dazi non risolvono, anzi, rischiano di aggravare. «Venite in America» è facile a dirsi, un po’ meno a farsi. n © riproduzione riservata



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