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Anche le imprese possono educare al pensiero critico digitale


di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa

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C’è una buona notizia che rischia di passare sottotraccia nel flusso continuo delle cronache quotidiane: sempre più scuole italiane stanno introducendo corsi strutturati di educazione all’informazione, alfabetizzazione mediatica e pensiero critico digitale. È un cambiamento silenzioso, ma profondo. Un segnale che la scuola pubblica – troppo spesso descritta come immobile – sta iniziando a rispondere a una delle emergenze educative del nostro tempo: preparare i cittadini di domani a navigare nel caos informativo del presente.

L’informazione è sovrabbondante e al tempo stesso fragile, in cui la verità è spesso sommersa da algoritmi opachi, bolle cognitive, manipolazioni volontarie o inconsapevoli. I più giovani sono i più esposti: crescono in un ambiente in cui ogni contenuto sembra avere lo stesso valore e in cui il confine tra reale e costruito è sempre più sottile. Perciò, insegnare ai ragazzi a distinguere una fonte attendibile da una fake news, a riconoscere le dinamiche del linguaggio d’odio, a non farsi catturare dalla viralità tossica è un atto di responsabilità civile. Ma non può essere una missione affidata solo alla scuola. È una sfida che riguarda anche le imprese, e in particolare il mondo della piccola e media impresa, che costituisce l’ossatura produttiva del nostro Paese.

Perché riguarda le imprese? Perché un tessuto produttivo sano ha bisogno di cittadini consapevoli. Ha bisogno di consumatori informati, lavoratori formati, utenti capaci di leggere criticamente ciò che accade. Un’impresa che vive in un ambiente inquinato da disinformazione, odio digitale e delegittimazione sistematica dell’autorità e della competenza è un’impresa più fragile, meno protetta, più esposta a rischi reputazionali e operativi. Le aziende possono contribuire attivamente alla costruzione di una cittadinanza digitale responsabile. Lo possono fare sostenendo progetti scolastici di educazione mediatica, collaborando con enti formativi, promuovendo al proprio interno una cultura della comunicazione trasparente, etica, rispettosa. E possono farlo anche formando i propri dipendenti – giovani e meno giovani – a un uso critico degli strumenti digitali, per evitare che diventino inconsapevoli amplificatori di contenuti pericolosi.

Del resto, la reputazione di un’impresa si gioca anche nella sfera della comunicazione. Un errore, una parola mal calibrata, una condivisione fuori contesto possono generare danni enormi. Per questo è fondamentale che le aziende si dotino di strumenti, competenze e consapevolezza per gestire responsabilmente la propria presenza informativa. L’educazione al pensiero critico digitale non è solo una questione scolastica. È una nuova forma di cittadinanza. E come tale deve essere sostenuta da tutti gli attori della società: dalle famiglie alle istituzioni, dalle imprese al terzo settore. Solo così potremo costruire un ecosistema informativo più solido, più giusto, più umano. Un Paese più consapevole è anche un Paese più competitivo. E più libero.

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