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Le vie parallele del Green deal e di Confindustria


La recente relazione del presidente Orsini all’Assemblea di Confindustria e la “ola” fatta intorno alla premier Meloni hanno un po’ l’effetto di uno specchietto per le allodole. Perché in realtà, l’Assemblea di Confindustria e il Governo non stanno esattamente sulla stessa linea, se non sull’attacco al Green deal; anche quello, però, sempre più generico e ripetuto come un mantra, appoggiandosi sempre meno a fatti e numeri.

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Il Governo, infatti, non ha soluzioni per l’alto costo dell’energia, poiché non intende operare sulla leva fiscale o colpire i grandi produttori energetici (di fossili ma anche di rinnovabili) cambiando il meccanismo di definizione del prezzo dell’elettricità e staccandolo dal gas. Pure sull’idea di utilizzare le parti non spese del Pnrr per le imprese c’è certamente qualche resistenza, anche perché Orsini stesso – come hanno fatto praticamente tutti i presidenti di Confindustria prima di lui –, a parte battere cassa in Italia e in Europa, non ha chiarito in che cosa consistano davvero nel merito le scelte produttive “innovative” e il grande “Piano industriale straordinario” che propone.

Ciò che colpisce ancora una volta nelle affermazioni del presidente Orsini, di cui sono molto apprezzabili i richiami al ruolo dell’impresa per una proteggere la democrazia, è proprio una certa mancanza di quel pragmatismo che invoca ripetutamente e la riaffermazione di alcune “professioni di fede”, come quella sul nucleare o sulla persistenza del motore endotermico, che denotano una visione “ideologica”, nel senso che sono convinzioni che alla fine ostacolano una chiara visione della realtà e soprattutto denotano una mancanza di comprensione di come si deve definire oggi una industria competitiva e capace di futuro. Il che, essendo l’Italia comunque il Paese della seconda manifattura in Ue, non può che preoccupare.

Infatti nonostante la narrativa nostrana, l’idea che le regole europee relative al Green deal siano un ostacolo per la competitività del nostro sistema industriale non sono credibili; al contrario, è sulla sostenibilità che si misura oggi la competitività di un’economia avanzata; e infatti le imprese che hanno investito in tecnologie verdi sono quelle che se la cavano meglio anche sui mercati internazionali, comprese quelle che fanno componentistica per le automobili, come dimostra un recente studio dell’Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema dell’automotive; inoltre, nonostante gli appelli pubblici a Bruxelles perché le regole cambino e vengano semplificate, in realtà la Commissione riceve lettere e discrete sollecitazioni da molte imprese a lasciare le cose come stanno, perché rimettere in questione norme che già si stanno applicando e sulle quali si è investito non porterebbe alcun reale vantaggio, se non per chi non ha voluto farlo.

Perfino la recente proposta della Commissione di  “Omnibus 1”, che mira a semplificare le normative dell’Ue, in particolare per quanto riguarda la rendicontazione sulla sostenibilità delle imprese (Csrd) e le direttive sulla due diligence (Csddd) ha suscitato critiche nientepopodimeno che dalla Bce, che avverte che ridurre l’ambito di applicazione della Csrd e posticipare i termini di rendicontazione potrebbe indebolire la trasparenza e la qualità dei dati Esg, ostacolando la capacità delle istituzioni finanziarie di valutare e gestire i rischi climatici e quindi l’accesso a risorse e finanziamenti.

Gli appelli a un’azione “efficace” dell’Europa che arrivano da più parti, presentano anch’essi una certa dose di incoerenza: alla base della lentezza nello sviluppo di soluzioni “made in Europe” ci sono proprio le esitazioni e la mancanza di consistenza nella realizzazione degli obiettivi del Green deal, gli ostacoli posti dagli Stati membri all’azione unitaria della Ue, ma anche dalle lobby industriali non interessate al cambiamento: come peraltro sottolineano sia Enrico Letta che Mario Draghi nei loro rapporti, molto citati ma poco davvero condivisi, soprattutto da chi, come il nostro Governo, ritiene che il suo ruolo in economia sia quello di aiutare categorie e corporazioni che lo sostengono e che di certo non hanno alcun interesse in cambiare alcunché. Da questo punto di vista, l’insistenza sulla rimozione dei “dazi interni” alla Ue, cioè quegli ostacoli regolamentari e burocratici posti soprattutto dagli Stati nazionali che impediscono il funzionamento efficace del mercato interno, appare del tutto contraddittoria con la cultura sovranista del Governo e di molta parte dell’impresa, che da quelle normative è protetta.

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Non è un caso da questo punto di vista che sempre di più emergano interessi contrapposti anche nel mondo produttivo italiano ed europeo – fra piccoli e grandi, energivori e produttori di energia, etc – che per noi ecologisti è davvero importante capire e sfruttare, collegandoli, s’intende, alla battaglia per una qualità del lavoro e dei salari, oggi molto carenti.

In questo senso la valutazione dei Piani nazionali clima e energia, uscita nei giorni scorsi da parte della Commissione Ue e ottimamente commentata da greenreport, può essere un utile stimolo a dimostrare che è indispensabile mantenere l’attuale quadro climatico ed energetico, resistendo agli appelli di riaprirlo. L’Ue è infatti ora sulla buona strada per ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di circa il 54% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Allo stesso tempo, senza misure aggiuntive non si raggiungeranno in pieno gli obiettivi. Le prossime proposte, quali la legge sull’accelerazione della decarbonizzazione industriale, il regolamento sulle flotte aziendali ecologiche, la legge sull’economia circolare, il pacchetto sulle reti dell’Ue e il pacchetto sull’energia per i cittadini, saranno fondamentali in questo senso.

C’è poi ancora da affrontare davvero il tema cruciale delle implicazioni sociali della transizione energetica, e mettere in atto misure mirate e un sostegno finanziario specifico per affrontare i potenziali impatti negativi e garantire che tutti i cittadini, in particolare i più vulnerabili, possano trarne beneficio.

Mantenimento del quadro normativo europeo e concreta applicazione con adeguati investimenti e incentivi delle politiche già decise; nuove norme che completino il quadro normativo e fondi adeguati nelle prossime prospettive finanziarie che sostengano nuovi settori produttivi, lavoratori/trici e accompagnino quelli che non hanno più prospettive; ribaltamento della narrativa secondo la quale la transizione è solo per i ricchi e che se ne può fare a meno. Queste sono le priorità di azione che ci devono guidare nei prossimi mesi, non solo per “salvare” il Green deal ma anche per assicurarci il sostegno degli europei e una maggiore visibilità ai settori produttivi che hanno già scelto il “green”, e che non sono ancora in grado di realizzarne appieno opportunità e vantaggi.



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