L’Unione europea ha bisogno di un nuovo slancio economico e strategico. A indicare la via è il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nelle sue Considerazioni finali. Per rilanciare la crescita e garantire un futuro competitivo al continente, l’Europa deve superare le logiche nazionali e dotarsi di strumenti comuni a partire da un vero mercato dei capitali e da titoli pubblici europei.
«Un mercato dei capitali integrato, con al centro un titolo comune europeo, ridurrebbe i costi di finanziamento per le imprese, attivando investimenti aggiuntivi per 150 miliardi di euro all’anno e innalzando, a regime, il prodotto dell’1,5 per cento», ha sottolineato Panetta. Tradotto in termini assoluti, significa un impatto potenziale di circa 450 miliardi di euro di Pil, cifra che potrebbe aumentare ulteriormente se «i nuovi investimenti fossero destinati a progetti ad alto contenuto tecnologico».
È una sfida epocale: «Un impegno di tale portata non può gravare unicamente sui bilanci nazionali, né essere affidato solo al settore privato», ha avvertito il Governatore. Occorre un patto europeo per la produttività che sappia coniugare la spinta pubblica agli investimenti comuni – sicurezza, energia, ricerca – con una mobilitazione efficace dei capitali privati.
«È cruciale introdurre un titolo pubblico europeo», ha detto Panetta, indicando una doppia funzione: finanziare i grandi investimenti pubblici e fornire al sistema finanziario un benchmark stabile e credibile.
L’esperienza del Next Generation Eu dimostra che è possibile: «Si può emettere debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei, senza dover creare un’unione fiscale o istituire un Ministero delle Finanze europeo».
A monte, c’è una visione politica ed economica: «Serve un programma di riforme basato sulle proposte già disponibili a livello europeo, sostenuto da risorse adeguate e scandito da tempi certi», ha spiegato Panetta. Un’agenda che investa sulla rimozione delle barriere interne, sulla tecnologia, sulle infrastrutture e su una maggiore autonomia strategica.
Difesa comune: investimenti condivisi per una sicurezza che genera coesione
Nel nuovo scenario geopolitico, l’Europa non può più permettersi di rimanere priva di una politica di difesa realmente comune. Panetta sottolinea che l’approccio attuale, basato su fondi nazionali e prestiti, «rischia di accrescere le disuguaglianze tra paesi e di ridurre l’efficacia della spesa». L’alternativa è un «programma unitario, sostenuto da debito europeo», destinando le risorse comuni prioritariamente a «tecnologia e ricerca nel campo della difesa», senza che ciò penalizzi «gli investimenti per la crescita e la spesa sociale» a livello nazionale.
Ma il governatore chiarisce anche i limiti di questo impegno: «Investire insieme nella sicurezza non significa avviare una corsa agli armamenti», bensì affrontare minacce comuni «con realismo», in un’ottica di solidarietà che protegge e «genera benessere, coesione e fiducia».
Un’industria in affanno tra energia e concorrenza globale
Nonostante la manifattura continui a rappresentare «una componente rilevante dell’economia europea», il vantaggio competitivo si sta erodendo. L’Europa è sotto pressione dalla concorrenza di paesi emergenti e in particolare della Cina, che «continua ad accrescere la propria quota nella manifattura mondiale», combinando «tecnologia, bassi costi e un saldo controllo delle catene del valore». A questo si somma il peso crescente dei costi energetici: a metà 2024 «il costo dell’elettricità risultava doppio rispetto a Stati Uniti e Cina», un divario che «penalizza gli investimenti e compromette la competitività».
Ritardo tecnologico: poca innovazione, troppa frammentazione
L’Europa continua a eccellere nella ricerca scientifica, ma fatica a trasformare questa forza in innovazione industriale. Il motivo? «In rapporto al PIL le imprese europee investono in ricerca e sviluppo la metà di quelle statunitensi», osserva Panetta. E anche la spesa pubblica in R&S, pur paragonabile a quella americana, «è frammentata tra Stati membri», ostacolando progetti su scala continentale. Il ritardo è evidente soprattutto in settori come l’intelligenza artificiale, dove «i brevetti europei sono meno di un quinto di quelli statunitensi».
Inoltre, l’Europa paga una scarsa presenza di aziende giovani e innovative, spesso «costrette a trasferire l’attività all’estero», al contrario degli Stati Uniti dove «il tessuto imprenditoriale si rinnova continuamente» grazie a forti investimenti nei servizi digitali e nelle tecnologie ad alta intensità di conoscenza.
Un’economia troppo dipendente dall’estero
L’alta apertura dell’economia europea, sebbene abbia portato benefici in passato, si è trasformata in una fragilità. Panetta rileva che in alcuni settori «l’apertura ha finito per tradursi in una forma di dipendenza da mercati e paesi esteri». Circa due terzi dell’energia consumata proviene da combustibili fossili importati e l’Europa è esposta verso la Cina per «numerosi beni strategici», cruciali per la transizione energetica.
Un quadro macroeconomico incerto, tra crescita debole e tensioni globali
Nel primo trimestre del 2024 l’economia dell’Eurozona è tornata a crescere (+0,3%), ma «a un ritmo inferiore al potenziale» e «è nuovamente mancato il contributo decisivo della Germania». La domanda interna resta fiacca, frenata dai postumi della crisi energetica e da un «orientamento ancora restrittivo della politica monetaria». Allo stesso tempo, la spinta dell’export si è indebolita, complice «il deterioramento del contesto economico globale».
Nonostante la buona notizia del rientro dell’inflazione verso il 2%, la ripresa rimane fragile. A pesare sono anche le incertezze derivanti dal commercio internazionale: i dazi statunitensi, ad esempio, colpiscono proprio «alcuni dei settori più esposti» come «mezzi di trasporto, macchinari e bevande». Panetta sottolinea come «l’incertezza sulle politiche commerciali ostacoli la pianificazione delle imprese» e aumenti i costi di finanziamento.
Una transizione energetica che deve essere anche sociale
Per Panetta è prioritario conciliare la decarbonizzazione con la sostenibilità sociale: «Una transizione efficace deve tener conto anche degli
aspetti sociali e delle esigenze produttive, raggiungendo il giusto equilibrio tra ambizione e fattibilità». L’Europa non può permettersi che gli obiettivi ambientali penalizzino la sua industria o aggravino le disuguaglianze.
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