In un mondo di giganti investiamo ancora troppo poco per convincere gli innovatori a far crescere qui le loro idee, invece di venderle a chi offre capitali e possibilità
Dopotutto non è vero che l’Italia sia terra arida di startup. Le iniziative sono moltissime. Un discreto numero di società è però solo formalmente da considerare neonata. Con vantaggi normativi e fiscali non disprezzabili, la tentazione di cambiare veste giuridica solo per pagare di meno e avere le mani più libere, è irresistibile. L’innovazione spesso è una scusa. Si tratta, dunque, di restartup. A volte persino con zero dipendenti. Ma anche al netto di questo fenomeno di (cattivo) costume economico, la situazione è negli ultimi tempi decisamente migliorata soprattutto lungo la frontiera dell’innovazione tecnologica, di prodotto, di servizio e di processo.
Si affinano gli strumenti finanziari. Si cerca di attrarre i giovani (che conservano un pregiudizio negativo su un Paese ritenuto ostile alla libera iniziativa); la burocrazia spaventa anche più del dovuto divenendo non raramente una scusa. Ma le storie di successo non mancano. Facciamo un solo esempio di come si riescano a ottenere, assai rapidamente, vantaggi di scala con una buona idea. Anche là dove sembra assai difficile averne una.
Da Unobravo a Bending Spoons
È il caso di Unobravo, creato da Danila De Stefano, nell’assistenza psicologica on line, diventato in breve tempo un player internazionale che dà lavoro a 200 specialisti e mette in rete 5mila psicoterapeuti. Aveva visto bene Cdp Venture Capital a investire, nel suo programma «semi per il Sud» (appena 150 mila euro), nella startup lanciata nel 2020 in piena pandemia. Recentemente Unobravo è stata acquisita dal fondo svedese Northzone insieme alla H14 di Luigi, Barbara ed Eleonora Berlusconi. Il family office dei figli del Cavaliere ha investito anche su Bending Spoons, uno dei pochi unicorni italiani, ovvero le startup che hanno ormai raggiunto e superato il valore di un miliardo. Le altre sono Newcleo, Satispay, Scalapay.
Multiverse, nel quantum computing e Axelera, nei semiconduttori, sono esempi di iniziative straniere che hanno avuto grande espansione internazionale, partendo proprio dall’Italia. Secondo i dati dell’Aifi, l’Associazione che raggruppa le società di venture capital di cui è presidente Innocenzo Cipolletta — e dunque allarghiamo il nostro raggio di osservazione al capitale di rischio puro — nel 2024 sono stati investiti in Italia 1,2 miliardi con una crescita dell’11%. La Spagna è a 2 miliardi, la Francia a 8, il Regno Unito a 17. Sono anche pochi gli operatori italiani, pochissimi.
Tante nascono, poche diventano grandi
Qual è allora il vero problema? Il tasso di fecondità (il paragone con l’andamento demografico non è arbitrario) è promettente, ma le nuove società, una volta arrivate all’adolescenza, difficilmente restano italiane. Sono inghiottite da fondi esteri che hanno un volume di fuoco difficilmente confrontabile con gli investitori italiani e talvolta europei.
Questa abissale differenza segnala anche e soprattutto la scarsa competitività, per taglia delle operazioni, dell’Europa rispetto agli Stati Uniti. Non solo, se i fondi, in particolare americani, sono in grado di offrire cifre così rilevanti, la tentazione dei fondatori è difficilmente contenibile e nel lanciare la propria azienda guarderanno inevitabilmente Oltreoceano sperando di essere comprati.
La lista delle ultime grandi acquisizioni realizzate da fondi americani, in particolare Sequoia, Lightspeed, Bessemer, Index, Accel, su società europee è sterminata. Quello che è assai poco sviluppato, come nota opportunamente Cipolletta, è il cosiddetto corporate venture capital, la predisposizione dei grandi gruppi a essere essi stessi capitalisti di ventura, stimolando la creazione di nuove aziende. Le eccezioni non sono poche. Oltre a Leonardo, diversi istituti di credito per tutta l’importante filiera del fintech, molte imprese del farmaceutico e dell’energia. Promuovere una startup è anche il modo di trattenere talenti che manifestano una voglia di imprenditorialità. Una variante nella gestione del capitale umano, soprattutto giovanile, di un’azienda.
Il ruolo di Cdp Venture Capital
Un ruolo primario lo svolge, come abbiamo già visto, Cdp Venture Capital che ha già finanziato circa mille start up, con un deliberato di 2,1 miliardi, risorse in gestione per complessivi 4,7 miliardi di asset. Sono stati creati 14 mila nuovi posti di lavoro. «Non possiamo dire — commenta la presidente Anna Lambiase — che non vi sia un fermento di iniziative, però l’imprenditorialità, soprattutto giovanile, va incoraggiata e sostenuta. Il nostro compito è quello di aggiungere lievito, finanziario e manageriale, alle buone idee nei settori che riteniamo strategici per il Paese. L’Italia ha più inventori che sviluppatori. Ed è opportuno pensare a strumenti che finanzino tutto il ciclo della vita iniziale delle imprese. La fase intermedia, nella quale molte start up muoiono, è la più delicata. Ma provarci è già un successo. Questo deve essere il messaggio: provateci. Poi si apre la sfida più delicata. Oggi non esiste un prodotto strutturato, di matrice venture capital, aperto, con le opportune garanzie, al risparmio privato, agli investitori istituzionali come le casse di previdenza, le assicurazioni. Qui c’è molto da fare, con competenza e più coraggio».
«Le risorse pubbliche sono indispensabili — è l’opinione di Salvo Mizzi, che è uno dei pionieri italiani del mondo digitale e del venture capital nell’innovazione — per ottenere i necessari salti di scala, ma hanno molti limiti operativi e di quadro regolatorio europeo che ne rallenta l’allocazione. Non riusciremo a cambiare veramente le cose senza attirare forti capitali privati. E il mezzo ideale è quello del fondo di fondi che consente di compensare e addomesticare i rischi, garantire di più gli investitori e condividere le professionalità soprattutto manageriali». Mizzi è tra i soci di Radical Fund, che è appunto un fondo che ambisce a investire su altri 25 nuovi fondi, ciascuno dei quali investa su almeno una trentina di start up. Gli altri partner sono Daniele Vecchi, senior executive di un importante fondo degli Emirati e Cristiano Garocchio con una lunga esperienza di head hunter. L’obiettivo è quello di raccogliere 400 milioni, di cui almeno la metà nei Paesi del Golfo con l’intenzione di ingaggiare gestori di fondi di venture capital di nuova generazione, concentrati sulle iniziative di tecnologia più avanzata.
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