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Quattro quesiti referendari per la tutela dei diritti e la sicurezza dei lavoratori


“Da decenni, in Italia si assiste a una riduzione dei diritti e delle tutele dei lavoratori. È una tendenza negativa, che contribuisce ad alimentare diverse emergenze, tra cui lavoro nero, precariato, inadeguatezza dei salari e infortuni -purtroppo spesso anche mortali- dei lavoratori”.

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È il quadro delineato dal professor Andrea Lassandari, docente di Diritto del lavoro presso l’Università di Bologna, su cui puntano a intervenire, almeno in parte, i quattro quesiti del referendum abrogativo promossi dalla Cgil.

“Nello specifico, il primo quesito mira all’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del decreto legislativo 23/2015, una delle otto norme del Jobs act del Governo Renzi, e riguarda i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti”, spiega ad Altreconomia Lassandari. È bene precisare che già nel 2012 la legge 92/2012, la cosiddetta “legge Fornero”, aveva limitato il reintegro automatico, riservandolo ai licenziamenti discriminatori e a quelli in cui la giusta causa e il giustificato motivo sono dichiarati illegittimi.

“Tre anni dopo, l’introduzione del Jobs act ha eliminato il diritto del lavoratore a essere reintegrato nel posto di lavoro nei casi di licenziamento senza giusta causa o ingiustificato motivo -a eccezione dei casi di licenziamenti discriminatori o disciplinari manifestamente infondati-, riconoscendogli solo un eventuale indennizzo economico proporzionato agli anni di servizio”, illustra il docente universitario.

La cifra da corrispondere al lavoratore, fissata per legge, va dalle sei alle 36 mensilità di stipendio. La vittoria del “Sì” ripristinerebbe la precedente normativa, riferita all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e poi modificato dalla “legge Fornero”, reintroducendo il diritto al reintegro nel posto di lavoro. “Sarebbe il giudice, invece, a determinare l’indennità economica per il dipendente, valutando il danno subìto, i suoi carichi familiari e le capacità economiche dell’azienda”, osserva Lassandari.

Il secondo quesito punta invece all’abrogazione parziale del limite delle indennità per i licenziamenti nelle imprese con meno di 16 dipendenti e fa riferimento a una norma -la legge 604 del 1966- che è in vigore solo per i lavoratori assunti entro il 7 marzo 2015. Nei casi di licenziamento privo di giusta causa o giustificazione, a oggi viene riconosciuta un’indennità da 2,5 a sei mensilità. Il referendum si propone di eliminare la soglia delle sei mensilità di indennizzo, affidando al giudice il compito di stabilirlo. “Ma attenzione, non è vero che non ci sarebbero più limiti, come affermano i sostenitori del ‘No’ -fa notare Lassandari-. La norma istituirebbe il tetto già valido per le grandi imprese: 24 mesi per i lavoratori assunti entro il 7 marzo 2015, 36 mesi per chi è stato assunto dopo quella data”.

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Un’altra norma del Jobs act è l’oggetto del terzo quesito del referendum. Si tratta del decreto 81/2015, relativo alle disposizioni in materia di contratti a termine. Lassandari ricorda che “storicamente il contratto a termine ha sempre costituito un’eccezione. A conferma di questo approccio il nostro ordinamento prevedeva l’indicazione di una ‛causale’ che giustificasse l’assunzione a termine a partire dal primo giorno di contratto”.

Negli anni, però, alcune modifiche hanno contribuito a “sdoganare” il ricorso al contratto a termine da parte delle aziende: nel 2012 la “legge Fornero” ha sancito la possibilità per un datore di lavoro di stipulare un solo contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi senza obbligo di causale; nel 2015, il Jobs act ha ampliato la flessibilità, consentendo di stipulare più contratti a termine privi di causale, purché la loro durata complessiva non superasse i 12 mesi.

“Il referendum punta a ripristinare l’obbligo della causale a partire dal primo giorno di lavoro, ma anche a eliminare la causale introdotta dal ‛decreto Lavoro’ del Governo Meloni, che ha affiancato le altre due causali ‛storiche’”, prosegue Lassandari. Oltre ai casi indicati dai contratti collettivi nazionali e alle “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria” (per esempio una sostituzione di maternità), il decreto legge 48/2023 ha sancito le “esigenze di natura tecnica organizzativa o produttiva individuale delle parti”. “Si tratta di una norma scritta in maniera vaga, che lascia spazio a molte interpretazioni e può rivelarsi ‛pericolosa’ sia per i dipendenti, sia per i datori di lavoro in un’eventuale sede giudiziale”, spiega il docente. Secondo i dati della Cgil, i lavoratori a tempo determinato che potrebbero beneficiare di una vittoria del ‘Sì’ sono circa 2,3 milioni. 

Al centro del quarto quesito, infine, c’è la responsabilità solidale negli appalti. “Secondo la norma vigente -precisa Lassandari- il committente può escludere dalla propria responsabilità solidale i danni che sono conseguenza dei rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici”. Per fare un esempio, nel caso di un infortunio legato ai ponteggi in un appalto nel settore dell’edilizia, l’azienda committente può opporsi alla richiesta di risarcimento del lavoratore.

Se il referendum avrà successo, dunque, il committente dovrà rispondere di tutti i danni subìti dai lavoratori. Secondo i promotori della campagna referendaria “l’abrogazione di questa norma può essere un ulteriore stimolo per le imprese committenti, affinché selezionino in modo accurato i propri appaltatori e, per quanto possibile, i subappaltatori”. In questo modo si potrebbe arginare, almeno in parte, la strage “silenziosa” che si consuma nei luoghi di lavoro. Un buco nero certificato anche dai dati Inail, che nel 2024 hanno registrato 589.571 infortuni sul lavoro, di cui 1.090 con esito mortale. 

Come sempre, la validità del referendum è legata al raggiungimento del quorum del 50% degli aventi diritto di voto. Un obiettivo difficile da centrare, considerando le percentuali di astensione che hanno contraddistinto le tornate elettorali degli ultimi anni. In questi mesi la Cgil, i partiti e le associazioni promotrici si sono attivate in una campagna di informazione su tutto il territorio nazionale, attraverso l’azione dei comitati. Il loro impegno, però, deve fare i conti con la mancata adesione delle altre due maggiori sigle sindacali italiane, Cisl e Uil, e con il silenzio con cui le emittenti radiotelevisive -su tutte quella pubblica- stanno accompagnando l’avvicinamento al voto.

Proprio per denunciare l’oscurantismo mediatico intorno al referendum, a fine aprile la Cgil ha organizzato in tutta Italia una protesta sotto le sedi della Rai. Il medesimo problema è stato sollevato anche dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), che a inizio maggio ha invitato tutte le emittenti “a dedicare un adeguato spazio informativo alle questioni sottoposte a voto popolare, affinché i cittadini possano avere gli strumenti per decidere con piena consapevolezza”.

Dopo aver svolto un monitoraggio della copertura offerta, il Consiglio di Agcom ha emesso il 12 maggio un provvedimento di richiamo nei confronti della Rai e delle altre emittenti televisive e radiofoniche “affinché garantiscano un’adeguata copertura informativa sui cinque temi oggetto dei referendum indetti per i giorni 8 e 9 giugno. Il richiamo ha l’obiettivo di offrire ai cittadini un’informazione corretta, imparziale e completa sui quesiti referendari e sulle ragioni a sostegno delle opzioni di voto”. Un altro segnale dello scarso spazio riservato ai referendum nell’informazione italiana. 

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Possono votare al referendum anche coloro che per studio, lavoro o cure mediche sono domiciliati da almeno tre mesi in un Comune di una provincia diversa da quella di residenza, che hanno presentato la richiesta entro lunedì 5 maggio 2025. 

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