di Raffaele Romano
L’8 settembre 1943 ebbe diversi risvolti in Italia alcuni di essi ebbero l’epicentro a Napoli dove la media borghesia partenopea aveva iniziato a guardare al futuro prossimo venturo incanalando i suoi giovani rampolli verso il Pci. Napoli si pronunciò, nei confronti dell’agognata rivoluzione comunista, con un semplice “I would prefer not to” (preferirei di no). Al nord, invece, la classe operaia aveva optato per la rivoluzione come evento sublime dopo la tirannia fascista. Da questo connubio di mix liberale, da un lato, e rivoluzionario dall’altro nacque e si rafforzò sempre più il Pci che, sotto la weltanschauung di Stalin fatta attuare da Palmiro Togliatti, avviò in modo speculare alla Dc di De Gasperi un partito sostanzialmente interclassista.
Come ha sottolineato lo storico Pasquale Chessa: “A Napoli più che altrove, la «via italiana al comunismo» è stata una via culturale: piaceva a Togliatti quel modo nuovo di diventare comunisti, il «culturcomunismo» che per Giorgio Napolitano fu anche un modo elegante per tenersi, già da allora, lontano da Stalin, con la scusa di poter storicizzare non solo Marx ma anche Lenin.” Il centro atomico del Pci fu, quindi, il culturcomunismo intorno a cui ruotava tutto il resto compreso la classe operaia. Furono i rappresentanti di una compagnia elitaria di futuri protagonisti del giornalismo, del teatro, del cinema, della letteratura oltre che della pittura e della scultura su cui si basò questa nuova categoria marxista.
I principali protagonisti furono in tanti fra cui, nel tempo, spiccarono Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Domenico Rea, Maurizio Valenzi, Giorgio Napolitano e Massimo Caprara a cui aderì, per tentare di riciclarsi, anche Curzio Malaparte. Oggi, invece, la bandiera del culturcomunismo è passata in mani meno forti nell’ambito “artistico e culturale” che hanno visto, negli ultimi anni, figure come Sabrina Ferilli, Nanni Moretti, Roberto Benigni, Gino Paoli, Fiorella Mannoia, Gian Maria Volonté e tantissimi altri prendere le redini e tentare di dettare la linea politica.
Ultimamente è venuto alla ribalta l’attore Elio Germano che ha colto l’occasione dell’ennesimo festival del cinema per attaccare il ministro della Cultura per la crisi economica dell’industria cinematografica. Bisogna però sapere che lo Stato italiano finanzia lautamente il cinema nostrano infatti, dati 2023, lo speciale Fondo ha stanziato e distribuito ben 746.000.000 di euro. Un noto presentatore, Salvo Sottile, ha ricordato all’attore Germano che ha preso fondi per i suoi ultimi 5 film pari a 9.000.000 di euro dallo Stato, cioè dai contribuenti. Specificando che l’ultimo film al botteghino sta incassando solo 500 euro al giorno.
Parrebbe che si è alle solite: “cuore a sinistra e portafogli ben piantato a destra!”
Il problema, purtroppo, cari contribuenti non sono solo i 746 milioni dati al cinema ma ci sono altre numerose “caste” che fanno “impresa” coi sussidi statali. Prendiamo ad esempio i “media” ovvero la stampa che viene alimentata anch’essa coi soldi dei contribuenti. Nel solo 2024 ben 695.000.000 di euro in cui spiccano 11 giornali delle minoranze linguistiche italiane dove svetta Dolomiten, in tedesco, che si è portato a casa € 3.088.498,02. In un altro reparto del finanziamento pubblico troviamo ben 132 imprese editrici dove svettano l’Avvenire, della Conferenza Episcopale italiana la CEI), per € 2.877.518,71 affiancato da Famiglia Cristiana con altri 3.000.000 di proprietà dell’I.P.S.S. (Istituto Pontificio per le Scienze Soc 24 Ore la Confindustria si prende 1.440.000 euro affiancata dai noti supporters del Sud Italia per il molto che danno alle politiche meridionali dove la
Lasciando il piano religioso ci avventuriamo nel cosiddetto mondo laico che non sfigura per niente dove con Il Sole 24 Ore la Confindustria si prende 1.440.000 euro affiancata dai noti supporters del Sud Italia per il molto che danno alle politiche meridionali dove la Gazzetta del Sud e il Quotidiano del Sud si portano a casa rispettivamente ben 1.907.29,22 e 1.848.080,44 euro. Italia Oggi riceve € 2.031.266,98 e si difende bene anche il “comunista” Il Manifesto che porta a casa 1.638.950,20 euro, il Corriere Romagna per 1.103.650,04, tutti gli altri viaggiano sotto il milione di euro.
Senza dimenticare i grandi gruppi del capitalismo italiano che, solo fra i più noti, si beccano 11.383.000 euro per il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, 6.700.000 alla Gedi (Repubblica e Stampa) e 5.250.000 a Cairo Editore. In tal modo Il pluralismo dell’informazione è servito! Così, oltre ai tre editori già citati, troviamo Editoriale Nazionale (a cui fanno capo QN, Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione) che ottiene un contributo di 3.700.000, Mondadori con 2.900.000 poi c’è il Nord Est Multimedia (che pubblica tra gli altri Il Mattino di Padova e Il Piccolo di Trieste) con 2 milioni. Poi ci sono il Messaggero (1,45 milioni), il Corriere dello Sport (1,27 milioni) e il gruppo Hearst con 1,05 milioni.
L’elenco è lungo e corposo. Vi figurano 80 editori che hanno presentato richiesta, per un importo complessivo richiesto di 67.867.000 euro, anche se il fondo si ferma a 60 milioni di euro. Tra le altre testate ci sono infine: Il Giornale 915.000, La Verità 827.000, Il Secolo XIX 791.000), L’Unione Sarda 740.000 oltre alla Gazzetta di Parma 605.000, l’Espresso 529.000 e Il Mattino 489.000.
Sono due delle innumerevoli corporazioni che succhiano i soldi dei contribuenti in una bolgia da oltre 1.000 miliardi di euro l’anno. Solo per citarne alcune: quella dei baby pensionati, quella di una parte della sanità pubblica, quella degli stabilimenti balneari e dei porti turistici, taxi e NCC, delle procure e di riflesso degli avvocati, i dipendenti della Rai, quella dominante che fa capo alle banche, delle case editrici, i dipendenti di Camera e Senato, dei giornalisti, dei notai, assicurazioni, quella dei distaccati comandati e fuori ruolo, delle partite IVA, senza dimenticare quella delle “Fosse delle Marianne” cioè società a partecipazione pubblica (quelle dove lo Stato, le Regioni o enti locali hanno una quota di controllo) pare che siano più di 8.000. e tantissime altre.
Tutte queste si sono accaparrate l’esclusiva nei loro ambiti senza concorrenza e con robusti finanziamenti pubblici.
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