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Ranza, Epicode: «Come cambia la formazione tech»


La formazione è chiamata a cambiare. Non solo nei contenuti, ma nei metodi, nei tempi e negli obiettivi. Il Mondo del lavoro, soprattutto quello tecnologico, evolve a un ritmo che rende obsolete molte certezze. E se la distanza tra sapere e fare si allarga, diventa urgente ripensare come si costruiscono le competenze.

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Oggi le imprese cercano profili in grado di affrontare sfide concrete, di adattarsi rapidamente e di lavorare in contesti dinamici. Ma il sistema formativo, spesso, non riesce a tenere il passo. «Non possiamo più pensare che l’apprendimento avvenga solo in aula e che basti conoscere la teoria per essere pronti al mondo del lavoro», dice Ivan Ranza, CEO di Epicode Institute of Technology.

La tecnologia apre nuove possibilità: apprendimento personalizzato, percorsi ibridi, contenuti pratici e modulabili. Ma coglierle davvero significa avere il coraggio di cambiare prospettiva.

Quali sono le principali criticità della formazione tradizionale rispetto alle esigenze
del Mercato tech?

«Le principali criticità della formazione tradizionale rispetto alle esigenze del Mercato tech si articolano su due macro-aree: la prima riguarda i contenuti formativi, dipendenti da limiti burocratici e amministrativi che ne rallentano l’evoluzione, talvolta perfino frenandola. Il Mercato del lavoro, in particolare nel settore tecnologico, si sta trasformando a una velocità impressionante che richiede una conseguente flessibilità e capacità di adattamento dei programmi di studio; questi programmi, però, sono fermi alle esigenze del passato e non riescono a stare al passo con il presente.

Questo porta alla formazione di studenti che, al termine del loro percorso accademico, risultano impreparati ad affrontare le sfide attuali. Il secondo problema riguarda invece i modelli distributivi della formazione: molte istituzioni, per timore del cambiamento, stanno regredendo a schemi tradizionali basati esclusivamente sulla presenza fisica, ignorando le enormi opportunità e i vantaggi offerti dalla tecnologia, come l’apprendimento ibrido e le piattaforme di istruzione digitali. Questo approccio limita l’accessibilità e l’efficacia della formazione, riducendo la capacità degli istituti più tradizionali di rispondere alle esigenze del Mercato di oggi».

Quali sono le competenze più richieste dalle aziende oggi e perché le università tradizionali faticano a formare profili adeguati?

«Oggi le aziende cercano un mix di capacità tecniche e trasversali, ed è per questo che le competenze che oggi non devono mancare al lavoratore si articolano su due livelli.

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Sul piano delle hard skills, oltre all’abilità di comprendere le infrastrutture tecnologiche e avere una solida base tecnica, i requisiti più richiesti riguardano l’ambito di sviluppo software, la gestione dei dati, la cybersecurity e l’intelligenza artificiale, ma anche la capacità di lavorare con metodologie agili e strumenti di cloud computing. D’altra parte, parlando di soft skills, sono fondamentali il pensiero critico, il problem solving, la capacità di adattamento e il lavoro in team.

L’obiettivo di Epicode Institute of Technology, attraverso il nostro corso di laurea, è esattamente quello di unire questi due aspetti: una solida base delle discipline STEM, accompagnata da una forte componente applicativa, che si concretizza nella capacità di lavorare da subito con le aziende. Tutti i nostri corsi sono infatti sviluppati in stretta collaborazione con le aziende, ed è previsto che gli studenti si interfaccino con le stesse lavorando su progetti concreti, per acquisire una visione pratica del mondo lavorativo, oltre alle competenze tecniche necessarie. Ma ciò che fa davvero la differenza è la capacità di collaborare con team e aziende, di adattarsi e risolvere problemi in contesti reali.

A mio avviso, le università tradizionali fanno fatica a formare profili adeguati per diverse ragioni, a partire dai modelli organizzativi che sono spesso troppo rigidi; inoltre, l’eccessiva burocrazia finisce per limitare la rapidità di aggiornamento dei programmi, e la gestione del personale accademico non sempre incentiva il dialogo con il mondo aziendale. Di conseguenza, gli studenti si trovano con una preparazione teorica solida ma poco spendibile in un contesto lavorativo sempre più dinamico».

Il metodo accademico è ancora efficace per formare professionisti in un settore che cambia così velocemente?

«In Italia ci sono senz’altro eccellenze importanti e professori straordinari, ma spesso operano in un sistema che non favorisce l’innovazione e che li lascia isolati. I più coraggiosi o intraprendenti cercano di insegnare nelle Università più prestigiose o scelgono di emigrare all’estero nella speranza di accedere a migliori opportunità o condizioni più vantaggiose.

Ritengo che questo sia un problema di difficile soluzione, che richiederebbe un punto di rottura con i modelli attuali e un cambiamento radicale, nell’ottica di una maggiore integrazione tra formazione teorica e pratica e che, soprattutto, preveda una maggiore collaborazione tra università e imprese».

La formazione teorica è spesso privilegiata rispetto alla pratica: perché questo approccio è un problema nel settore tecnologico?

«Questo, purtroppo, è un problema in tutti i settori e non si limita al tech. L’autoreferenzialità del sistema accademico porta alla chiusura nei confronti del mondo delle imprese, che invece dovrebbe essere integrato o almeno contare su un continuo dialogo con le università per non perdere il contatto con le esigenze reali del Mercato del lavoro.

Nel comparto tecnologico, data la velocità dell’evoluzione e la competizione serrata, questa distanza è particolarmente problematica: chi si laurea entra nel Mercato del lavoro con ottime basi teoriche ma spesso senza una solida esperienza pratica, e le aziende devono investire in media 8/12 mesi nella formazione. Il rischio, poi, è che una volta formati, i talenti vengano anche persi poiché attratti da realtà straniere che offrono salari più alti e condizioni migliori.

L’avvento del lavoro da remoto, infine, ha reso ancora più evidente questa dinamica, e sta cambiando radicalmente la configurazione del Mercato del lavoro in favore dell’importanza delle competenze soprattutto pratiche».

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Il concetto di microlearning sta guadagnando popolarità. Crede che questo metodo possa realmente sostituire la formazione tradizionale o è solo un complemento?

«Il microlearning è ‘solo’ un’evoluzione dell’apprendimento, che risponde a una constatazione molto semplice: con l’avvento del web, la modalità di fruizione dei contenuti nel mondo del media si è evoluta diventando sempre più veloce e incisiva, di conseguenza, la soglia di attenzione è calata drasticamente. Ciò ha modificato le abitudini di tutti andando ad incidere anche nel modo in cui ci aspettiamo di fruire i contenuti formativi.

Nel 2021, la soglia media di attenzione si è attestata a soli 8 secondi (uno in meno dei pesci rossi), minata dal flusso eccessivo, incontrollato e slegato di informazioni a cui siamo esposti costantemente (è la cosiddetta “infobesità”): ciò rende più difficile trattenere e applicare nozioni più lunghe e complesse trasmesse in modo tradizionale.

Di conseguenza, anche i modelli formativi si devono adattare al mutato contesto della società, ed è qui che entra in gioco il microlearning: questo metodo di apprendimento si basa sulla proposta di contenuti brevi, focalizzati su un problema specifico, che aiutano a capire subito la soluzione dello stesso. I suoi vantaggi sono evidenti: maggiore flessibilità, adattabilità alle esigenze dello studente e miglioramento dell’efficacia formativa».

La personalizzazione della formazione tramite AI può migliorare l’apprendimento?

«Sono convinto che l’intelligenza artificiale cambierà profondamente le modalità di apprendimento, migliorandole sotto molteplici punti di vista. Sicuramente, tutta una serie di attività ripetitive non saranno più necessarie, e probabilmente l’apprendimento mnemonico fine a se stesso finirà per scomparire, aumentando la necessità di capacità di astrazione e problem solving.

I rischi esistono, come in ogni innovazione e in particolar modo in tutto ciò che riguarda la tecnologia, ma vedo molte più opportunità che minacce. Il bilancio tra opportunità e rischi dipende, come sempre, dall’uso che si fa degli strumenti, ma sono convinto che l’essere umano, nel medio periodo, saprà fare tesoro degli errori e mettere la tecnologia al servizio del bene comune».

 Le aziende tech devono sempre più formare autonomamente i propri dipendenti. Come si spiega questa crescente responsabilità?

«Più che una responsabilità, di cui le aziende tech farebbero volentieri a meno, si tratta della risposta necessaria a una formazione scolastica spesso non adeguata alle esigenze del Mercato. Il gap tra la formazione accademica e le competenze richieste sul Mercato costringe le imprese a investire in percorsi di formazione interni, con risultati non sempre soddisfacenti, ma anzi con costi elevati e senza la garanzia di trattenere i talenti formati».

Come vede il futuro della formazione tech?

«Credo che assisteremo a una trasformazione simile a quella avvenuta nel mondo dei M+edia negli ultimi vent’anni. La tecnologia imporrà il cambiamento, determinando nuovi modelli formativi e contenuti organizzati in maniera diversa. Infine, il concetto tradizionale e ottocentesco di insegnamento – basato su lezioni frontali e lunghi cicli di apprendimento – verrà ampiamente superato e in tempi molto brevi».

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Quali modelli educativi potrebbero ispirare l’Italia a colmare il divario tra istruzione e lavoro?

«In alcuni Paesi, come Germania e Francia, esistono già diversi esempi di università e licei professionalizzanti; questo modello, se introdotto anche in Italia, sarebbe “solo” un primo passo. Come dicevamo prima, il progresso tecnologico modificherà radicalmente il modo di insegnare, e qualche caso interessante lo vediamo già negli Stati Uniti.

Il vero cambiamento arriverà dall’integrazione tra tecnologia e formazione: potrebbero essere anni molto avvincenti e ricchi di opportunità anche per l’Italia, ma niente è ancora certo. Se avremo il coraggio di dare spazio ai tanti bravi professori e imprenditori del settore, che pensano prima allo studente che a proteggere il proprio salario garantito da uno stipendio fisso, le cose potrebbero cambiare».

La formazione tech di qualità è spesso costosa. Come si può rendere accessibile un’educazione innovativa senza creare nuove disuguaglianze?

«Questo è un tema molto importante e ritengo che l’intervento dello Stato e dei privati per garantire l’accesso a una formazione di qualità sarà fondamentale. Non bisogna dimenticare, però, che l’accesso a contenuti formativi on line ha già ridotto alcune barriere economiche, rendendo accessibile una formazione di qualità a molti studenti che fino a pochi anni fa non potevano permettersela.

Un Paese sano, che guarda al futuro, deve investire nella formazione e garantire l’accesso a tutti premiando i più bravi. In questo, la tecnologia aiuta tanto, ma sono convinto che serva coraggio, ben più che denaro». ©

Articolo tratto dal numero del 15 maggio 2025 de Il BollettinoAbbonati!

📸 Credits: Canva      

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