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I progetti Pnrr in Italia


Torno sull’argomento del Next Generation Eu che ho già trattato sulle pagine online di questa rivista per richiamare l’attenzione sulla rilevanza della decisione della Commissione europea e dell’occasione da non sprecare che ci veniva offerta. Mi soffermavo, allora, sulle questioni di metodo e sulla coerenza degli interventi da avviare per garantire il raggiungimento degli investimenti necessari per la ristrutturazione del sistema produttivo (e l’ampliamento dell’occupazione di qualità) e della coerenza della conseguente modifica della struttura economica con il cambiamento (necessario e auspicabile) della domanda interna. Le questioni di metodo riguardavano soprattutto l’integrazione tra investimenti pubblici e privati (anche promuovendo la cultura del partenariato pubblico privato) e l’efficace interazione tra i soggetti pubblici lungo la filiera istituzionale, favorendo la cooperazione e la co-progettazione.

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Finalmente si possono trovare le prime informazioni sui progetti finanziati dal Pnrr e si può provare a dare una prima valutazione degli interventi programmati. Sono almeno 270 mila i progetti finanziati in Italia e oltre 41 mila nella sola Lombardia. Ma anche quando andiamo sui territori, troviamo numeri rilevanti: per esempio sono stati finanziati oltre 3.000 progetti in provincia di Pavia; se prendiamo in considerazione altre medie province comparabili a Pavia, abbiamo quasi 4.500 progetti finanziati nelle province di Trento, Cuneo, Vicenza. Si può immaginare quale sia stato il grado di coordinamento di progetti così numerosi anche sui territori e in che modo sia stato possibile provare a individuare i progetti più rilevanti per i territori e più coerenti rispetto agli obiettivi del Ngeu.

Tra i soggetti attuatori emergono alcuni attori privilegiati. La rete ferroviaria assorbe (con 181 mila progetti) 47,3 miliardi di euro e, quindi, quasi il 25% del finanziamento europeo. Potrebbe anche andare bene se non si considerasse che la gran parte dei progetti non fosse già stata vagliata e accettata (ma non finanziata) all’inizio degli anni Novanta e se non avessero trovato ostacoli alla loro realizzazione. Il secondo attuatore è il ministero dell’Ambiente, con 15,7 miliardi e con quasi 61 mila progetti. Però non abbiamo trovato né il consenso né la capacità di affrontare le questioni delle grandi bonifiche da effettuare nelle aree industriali dismesse del nostro Paese, che ancora attendono tempi migliori.

Se prendiamo i 24 progetti di maggior rilevanza in termini di finanziamento, scopriamo che ben 6 tra essi non hanno neppure iniziato a spendere un euro. Ma altri due hanno speso meno dello 0,4% e altri tre meno del 5%. Vale a dire che circa la metà dei progetti “bandiera” del Pnrr italiano sono praticamente “al palo” di partenza.

Circa la metà dei progetti “bandiera” del Pnrr italiano sono praticamente “al palo” di partenza

La capacità di spesa non ha relazione con i soggetti giuridici né con la funzione pubblica o privata né con la dimensione dell’impresa e dell’Amministrazione pubblica né con la tipologia di spesa (infrastrutture, ricerca, assunzione di nuove competenze professionali, servizi sanitari o servizi pubblici a soggetti fragili). C’è una sorta di distribuzione stocastica (come direbbero gli statistici) dell’incapacità di spesa che si distribuisce in modo completamente casuale nell’universo dei soggetti attuatori.

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Va notato che i due più costosi progetti presentati a livello nazionale dalle imprese sono ancora a spesa zero. Le cose non cambiano se osserviamo le amministrazioni titolari dei finanziamenti. Il ministero delle Imprese e del Made in Italy, che dovrebbe intendersi di questi temi, è attuatore di 2.589 progetti a livello nazionale e di 365 in Lombardia. 18 dei 24 più importanti finanziamenti concessi a imprese private lombarde sono ancora a zero spesa.

Ma problemi analoghi sono sorti con il ministero dell’Ambiente, così che non si possano scaricare le responsabilità delle difficoltà incontrate sui comuni minori. Per esempio il ministero dell’Ambiente ha gestito l’attuazione di ben 1.281 progetti in provincia di Varese; i primi 24 in ordine di rilevanza dei finanziamenti erano tutti indirizzati al miglioramento della classe energetica degli edifici ma nessuno di essi è riuscito a spendere un euro! La ripetitività dei progetti anche in diversi territori fa venire il sospetto che ci siano “consulenti” con C maiuscola e con opportune “garanzie” di buon esito (ma che definisco “spicciafaccende”) che riproducano il progetto con lo stampino (o, oggi, con il “copia e incolla”) per bandi in diversi territori, emessi da diverse amministrazioni, e che si sostituiscono a un sano dibattito e confronto tra gli operatori socio-economici locali (con il conseguente apprendimento collettivo) sul territorio.

Ma anche la Regione Lombardia come attuatore non è indenne nella sua capacità di spesa: due tra i quattro principali progetti non hanno ancora speso un euro.

Ma andiamo alle università che forse è l’argomento per me più scottante, essendomi occupato delle relazioni tra innovazione e territori sin dagli anni Ottanta. Le università hanno ricevuto finanziamenti per un numero straordinario di progetti (da 376 per l’Università di Pavia a oltre 1.100 per Napoli, a circa 850 per Bologna a 800 per Padova, con diverse decine di milioni di euro di finanziamento e addirittura qualche centinaio in alcuni casi: 267 per Napoli e oltre 200 per il Politecnico di Torino e per quello di Milano). Forse troppi progetti per essere ben calibrati, coordinati e organizzati per essere produttivi e spendibili e per innescare un processo continuativo nel tempo. Come è possibile trovare, in un ateneo, così tanti “leader” progettuali e responsabili per organizzare in modo efficace un numero così rilevante di progetti, con capacità di rendicontazione, non solo contabile, ma anche con capacità di “narrazione” (all’interno della struttura e all’esterno tra gli stakeholder) dei risultati ottenuti?

Ovviamente tanti progetti (forse troppi) e con finanziamenti difficili da spendere in tempi brevi con gli accresciuti vincoli di natura amministrativa e burocratica che ci sono per le università italiane; il risultato è spesso un basso livello di spesa. Molto spesso anche progetti senza alcuna spesa su temi ben presenti agli studiosi da almeno venti o trent’anni e che sono affrontati con ritardo: dall’orientamento sistematico ed efficace agli studenti delle superiori, all’organizzazione efficace dei dottorati e alla loro internazionalizzazione, alla strutturazione di gruppi di ricerca su temi rilevanti e di riconosciuta specializzazione per ciascun ateneo, ai rapporti tra ricerca e industria con la capacità di costruire e mantenere rapporti stabili e interattivi e spingendo e convincendo al cofinanziamento il mondo privato.

Qualche anno fa sarebbe bastato aiutare le università più attente e sensibili con qualche decina di migliaia di euro per avere continuità di progetti efficaci, ricchi di idee e proposte di collaborazione; quando arrivano troppe risorse, la quantità del finanziamento “fa girare la testa” anche ai più attenti e non si riesce a gestire una quantità di risorse a cui non si è abituati. I progetti non devono partire dai finanziamenti, che potrebbero trasformarsi in “droga”. I progetti devono scaturire dai problemi che si incontrano sui due lati della questione: da un lato, l’offerta di ricerca e di avanzamento tecnologico che è innato negli studiosi ma anche nella loro capacità di trasmettere all’esterno l’utilizzabilità dei loro risultati di ricerca. Dal lato della domanda, è necessaria la capacità di esplicitare il fabbisogno di assistenza tecnologica, di aggiornamento professionale dei tecnici e dei ricercatori del sistema privato; ma anche il superamento delle difficoltà di reclutamento di giovani ben formati da parte delle imprese e dalla necessaria interazione dei due mondi, che si conoscono ancora troppo poco. Dalla individuazione dei problemi e dalla volontà e capacità di affrontarli ed eventualmente risolverli sta l’organizzazione di uno stabile partenariato pubblico-privato che non va dimenticato e che è ancora troppo debole nel nostro Paese.

Nel nostro Paese si continuano a commettere gli stessi errori: incapacità di coordinamento, insufficienza di capacity building, mancata abitudine a fare cooperazione non solo tra attori pubblici e privati, ma spesso anche lungo la filiera istituzionale

In alcuni degli altri Paesi europei ci sono strumentazioni e pratiche che funzionano abbastanza bene; c’è collaborazione tra operatori pubblici e privati; e c’è spesso collaborazione lungo la filiera istituzionale. È sufficiente ricordare le esperienze dei “Poli di competitività” in Francia e delle “Agglomerazioni di imprese” in Spagna che, tra l’altro, hanno preso spunto dalla letteratura italiana. Sono esempi di strumenti nazionali di politica industriale e che hanno applicazione a livello territoriale e che sono stati determinanti nel metodo utilizzato per la loro applicazione del Ngeu. Nel nostro Paese si continuano a commettere gli stessi errori: incapacità di coordinamento, insufficienza di capacity building, mancata abitudine a fare sistematica cooperazione non solo tra attori pubblici e privati, ma spesso anche lungo la filiera istituzionale, per raggiungere l’interesse del Paese e dei territori con una visione di medio-lungo periodo. Si continua a vivere alla giornata, inseguendo facili illusioni e traguardi irrealistici, quando non siano basati su un metodo di lavoro e sulla continuità dell’impegno e della responsabilità reciproca.

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C’è un metodo alternativo per utilizzare con efficacia la spesa pubblica per la ristrutturazione economica e la resilienza dei territori e del Paese che ha già trovato esperienze e pratiche rilevanti nel passato: il coordinamento di progetti strategici a livello nazionale (come nell’esperienza del ministero del Bilancio e della Programmazione economica ai tempi di Pasquale Saraceno, Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini e Giorgio Ruffolo) e a livello territoriale con i Piani strategici della città (a partire dall’esperienza di Barcellona, prima delle Olimpiadi, e, più tardi, di Torino Internazionale). Su questi punti ci eravamo già interrogati (con i lettori) in tempi non sospetti, all’avvio del processo del Ngeu.



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