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Sud, donne e competenze: i nodi dell’occupazione italiana


In Italia, il lavoro è ancora una questione di geografia, di genere, di opportunità. Al Sud resta spesso un miraggio e per molte donne rappresenta un percorso difficile da costruire, tra carichi familiari e mancanza di servizi. E mentre le imprese cercano nuove competenze, il mercato del lavoro fatica a tenere il passo, in bilico tra slanci innovativi e vecchie rigidità. Secondo l’ultima rilevazione Eurostat, l’Italia continua a essere il fanalino di coda tra i grandi Paesi europei per tasso di occupazione nella fascia 20-64 anni: nel 2024 si è attestata al 67,1%, ben lontano dalla media Ue del 75,8% e ancor più distante dall’obiettivo del 78% fissato per il 2030. Un gap che, nonostante un incremento dello 0,8% rispetto all’anno precedente, resta ampio.

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Tra i Paesi con i tassi di occupazione più alti figurano Paesi Bassi, Malta e Repubblica Ceca, tutti oltre l’80%. All’estremo opposto, insieme alla Grecia e alla Romania, c’è l’Italia. Ma è guardando all’interno del nostro Paese che il divario si fa ancora più netto: Calabria, Campania, Sicilia e Puglia occupano le ultime quattro posizioni nella graduatoria europea delle regioni continentali per tasso di occupazione, superate solo dalla Guyana francese. Una delle cause principali è la bassa partecipazione femminile al lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno. In Campania, solo il 32,3% delle donne tra i 15 e i 64 anni è occupato, contro una media Ue del 66,2%. Calabria e Sicilia non fanno meglio, rispettivamente con il 33,1% e il 34,9%. Anche se si registrano lievi segnali di miglioramento (più 1,2 punti in Campania e più 2,1 in Sicilia), il distacco con l’Europa rimane profondo: il tasso di occupazione femminile italiano si ferma al 53,3%.

Grafico a cura di Silvano Di Meo 

Qualche spiraglio, però, si intravede. Tra il 2023 e il 2024, la Sicilia ha visto crescere il tasso di occupazione di quasi due punti percentuali; la Puglia ha raggiunto il 51,2%, con un incremento di 1,5 punti. Anche se il confronto con regioni come lo Zeeland, nei Paesi Bassi, resta impietoso (84,5%). Anche tra gli uomini il divario esiste, seppure meno accentuato: in Calabria il 56,6% è occupato, contro l’84% di alcune regioni tedesche. A questa geografia della disoccupazione si affianca un’altra criticità: il mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Più di due terzi delle imprese italiane segnalano difficoltà nel reperire le competenze necessarie. Le aree più problematiche sono quelle tecniche e le mansioni manuali. Le criticità sono invece meno evidenti per le competenze trasversali e manageriali. Lo rivela l’Indagine Confindustria sul lavoro 2024, secondo cui due aziende su tre sono in difficoltà nel trovare profili adeguati che le accompagni nella transizione digitale. Pure l’internazionalizzazione è un nodo per circa un terzo delle imprese, mentre la transizione green è segnalata come problematica solo dal 15,1% delle aziende.

Per colmare questi divari, le imprese stanno adottando diverse strategie. La formazione del personale è la risposta più diffusa, seguita dal ricorso a consulenze esterne e dalla partecipazione a iniziative educative territoriali, come gli Its Academy e i tirocini.

Il grado di mismatch varia anche per settore e dimensione aziendale. Nell’industria, il 73,5% delle imprese dichiara difficoltà nel reperire competenze, contro il 65% nei servizi. Le problematiche aumentano con la dimensione dell’impresa: colpiscono il 64,8% delle piccole realtà, il 72,8% delle medie e il 77,6% delle grandi. E per il prossimo futuro non mancano le sfide, considerato che l’adozione crescente dell’intelligenza artificiale e delle soluzioni digitali sta riscrivendo le regole del lavoro. Secondo il World Economic Forum, oltre la metà dei datori di lavoro a livello globale prevede di cambiare radicalmente il proprio modello organizzativo nei prossimi anni. Il 77% investirà in programmi di reskilling (riqualificazione professionale) e il 41% prevede riduzioni di personale legate all’automazione. Un imprenditore su due pensa, inoltre, di riconvertire parte del team verso funzioni meno esposte alla sostituzione tecnologica.

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Questo scenario apre a un doppio binario. Da un lato, si ampliano le opportunità per nuove professionalità ad alta specializzazione – dai data scientist (professionisti che analizzano grandi quantità di dati) agli esperti di machine learning (specialisti che progettano, sviluppano e ottimizzano algoritmi e modelli capaci di apprendere dai dati per compiere previsioni, classificazioni o decisioni automatizzate), fino agli ingegneri della cyber security. Dall’altro, si assiste a un graduale declino delle mansioni ripetitive o scarsamente digitalizzate, che rischiano l’obsolescenza.La portata del cambiamento dipenderà dalla capacità delle imprese di gestire la transizione. L’integrazione delle tecnologie intelligenti non è neutra: richiede cultura organizzativa, investimenti mirati, visione strategica e, soprattutto, un equilibrio umano. Il rischio è che la tecnologia finisca per amplificare le disuguaglianze anziché ridurle.

Infine, le aziende sono chiamate a fare i conti con la diffusione del lavoro da remoto, alla crescente domanda di equilibrio tra vita privata e lavorativa. Rispondere a queste richieste implica un’evoluzione nei modelli organizzativi e l’investimento su formazione e strumenti concreti di welfare. Un equilibrio non semplice, ma necessario, per accompagnare il lavoro verso una fase più inclusiva e sostenibile.



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