TARANTO – L’incendio all’altoforno 1 del 7 maggio scorso ha danneggiato irrimediabilmente l’impianto rendendo di fatto impossibile il rilancio produttivo previsto dal piano industriale dei commissari straordinari di Acciaierie d’Italia. E così, a bocce ferme, la produzione dell’Ilva è compromessa. Lo stesso ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, è stato costretto ad ammettere che ci sarà un impatto su occupazione diretta e indotto. E il colpo, ieri mattina, è arrivato. L’azienda si prepara ad avanzare un intervento di cassa integrazione al ministero del Lavoro per raddoppiare in numero di operai in cassa integrazione, che, a questo giro, dovrebbero superare le 4.000 unità. L’annuncio ieri al termine di un tavolo tra Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria e sindacati. Del resto, con un solo altoforno in funzione, i 6 milioni di tonnellate annui previsti nel piano di rilancio sono un obiettivo irraggiungibile. Secondo quanto emerso al tavolo con azienda, commissari e tute blu, il piano di sospensioni è così ripartito: 3.538 a Taranto, 178 a Genova, 163 a Novi Ligure, 26 a Marghera, 10 a Legnaro, 36 a Milano (uffici), 15 a Paderno, 20 a Salerno e 15 nella società collegata Taranto Energia. Ma i sindacati paventano un ulteriore aumento di questi numeri. Oggi stesso partirà al ministero del Lavoro l’istanza di esame congiunto.
L’accordo del 4 marzo scorso tra AdI e sindacati prevedeva invece un massimo di 3.062 cassintegrati a rotazione su poco meno di 10mila dipendenti, di cui 2.680 a Taranto. Prima dell’incidente all’altoforno del 7 maggio scorso la media era stata di poco più di 2mila lavoratori in Cig. Intanto l’azienda ha comunicato alle organizzazioni sindacali che già da oggiinizieranno le attività di spegnimento della batteria 9 del reparto Cokerie e dalla settimana prossima ci sarà la fermata completa della stessa: tutto il personale sarà collocato in cassa integrazione.
A illustrare le decisioni dell’azienda, nel corso di una riunione in videoconferenza, è stato il responsabile delle Risorse Umane Claudio Picucci. Per i sindacati nazionali erano presenti Valerio D’Alò della Fim Cisl, Loris Scarpa della Fiom Cgil, Guglielmo Gambardella della Uilm e Francesco Rizzo dell’Usb.
Durissimi i commenti dei sindacati. «Il governo deve prendere atto che l’unica strada rimasta da percorrere è quella di interrompere l’inutile e dannosa trattativa di vendita dell’ex Ilva con Baku, poiché gli azeri non hanno mai voluto impegnarsi a mettere risorse di tasca propria. Occorre quindi avviare rapidamente la chiusura dell’amministrazione straordinaria con il passaggio dell’azienda allo Stato attraverso la nazionalizzazione, per il tempo necessario, anche con il supporto di produttori siderurgici italiani» ha spiegato il segretario generale Uilm, Rocco Palombella, aggiungendo che «l’incidente della scorsa settimana all’altoforno 1 ha smascherato la reale situazione dell’ex Ilva che vede il bando di vendita e la trattativa con Baku in una situazione indefinita, la nuova Aia non è stata ancora approvata dal Ministero dell’Ambiente e potrebbe subire ulteriori slittamenti, c’è insufficienza di risorse economiche per la manutenzione e il ripristino degli impianti e le fonti di finanziamento già percepite, compreso il prestito ponte, sono in fase di esaurimento».
Tutto questo, fa rilevare il sindacalista, «ha provocato il raddoppio della cassa integrazione attuale, da 2mila a 4mila lavoratori, e l’avvio di un’altra procedura per aumentarla ulteriormente, senza conoscere realmente l’entità del danno subìto dall’altoforno 1. Si prefigura, inoltre, la fermata strutturale di due altoforni (1 e 2) e il mantenimento in esercizio del solo Afo 4, fatte salve ulteriori decisioni negative». Palombella ha chiesto di «attivare immediatamente un tavolo alla presidenza del Consiglio per individuare strumenti straordinari per gestire la complessa transizione, come una legge speciale di pensionamento anticipato e strumenti di risarcimento per i lavoratori (Ilva in As, AdI in As e dell’appalto)».
Per il segretario generale Fim Cisl Ferdinando Uliano e il segretario nazionale Fim Cisl Valerio D’Alò, «serve subito un incontro con Governo su situazione piano industriale e AIA». «A nostro avviso la discussione va condotta su due piani paralleli – dicono dalla Fim -: il primo che si basa sull’accordo di cassa integrazione esistente, che dovrà continuare a dare una copertura immediata rispetto all’emergenza che si è venuta a creare. Contemporaneamente c’è tutta una discussione da tenere a Palazzo Chigi con i ministeri competenti per capire come sta procedendo la trattativa con Baku Steel e il governo e soprattutto quali sono le soluzioni per l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) senza la quale uno stabilimento come quello tarantino non ha prospettive e soprattutto, quali sono le prospettive del piano industriale ora dopo l’incidente ad Afo 1».
Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil è tranchant: «La Fiom-Cgil non accetterà percorsi di cassa integrazione senza alcuna chiarezza sulle prospettive future dell’ex Ilva. Non può essere che i lavoratori ancora una volta paghino le conseguenze dell’incapacità di far partire la decarbonizzazione degli impianti. Da mesi diciamo che le risorse non sono state garantite in modo sufficiente ad assicurare il piano di ripartenza ed ora non può essere che la soluzione sia collocare i lavoratori in cassa integrazione chissà per quanto tempo».
Per Francesco Rizzo e Sasha Colautti dell’Esecutivo nazionale Usb, l’aumento della cassa integrazione «di circa 2mila unità» prospettato dall’azienda potrebbe coinvolgere «un totale di 5.500 lavoratori».
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