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il problema non è più “quanto”, ma “come”


Uno studio paneuropeo sulla transizione ecologica mostra come nel nostro paese l’espansione delle rinnovabili stia continuando a un buon ritmo (né spettacolare, né deludente), ma resti ancora lontana dall’essere giusta e condivisa. Ci sono però delle realtà locali che fanno ben sperare

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Anche gli ambientalisti più pro-rinnovabili come il network di Can (Climate Action Network) definiscono lo sviluppo dell’energia pulita in Italia come in una fase di «crescita dinamica», ma la novità politica che emerge dal loro ultimo rapporto – a cui hanno contribuito anche Legambiente e Wwf – che oggi il problema italiano non sia più il «quanto», ma il «come».

Nello studio paneuropeo sulle transizioni dei vari paesi, si legge come l’espansione delle rinnovabili in Italia continui a un buon ritmo (né spettacolare, né deludente), ma resti ancora lontana dall’essere giusta e condivisa. I casi come la rivolta anti-eolico in Maremma o l’opposizione a tutto campo da sinistra in Sardegna mostrano come il vero tema oggi sia mettere in piedi meccanismi di coinvolgimento delle comunità locali e della condivisione dei benefici che siano credibili e strutturati.

Oggi quei meccanismi, secondo l’analisi di Can, esistono, ma sono dispersi tra buone pratiche isolate, la buona volontà di singoli produttori e un impianto normativo che invece fatica a garantire partecipazione omogenea su tutto il territorio e una redistribuzione reale. Senza questo salto di qualità l’opposizione dei territori ai nuovi progetti continuerà a crescere.

I meccanismi 

Un esempio positivo arriva da Tocco da Casauria, in Abruzzo: un parco eolico che ha reinvestito circa 170mila euro l’anno in servizi locali, grazie a un accordo tra i promotori del progetto e il comune. Nessuno sconto in bolletta (che è vietato per legge), ma meno tasse locali e più servizi: una mensa scolastica, il miglioramento di illuminazione pubblica e pulizia strade, impianti sportivi. Questo ha creato un consenso forte, che ha permesso di passare da due a cinque turbine. Ma raccontiamo questa storia abruzzese come eccezione, e non come regola.

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La partecipazione delle comunità ai progetti rinnovabili in Italia è ancora ampiamente procedurale. Si fa perché si deve, la si tiene al minimo possibile, di solito la si attiva in fase di autorizzazione, e la si chiude il prima possibile, senza che le comunità locali si sentano davvero coinvolte. Alcune riforme recenti hanno introdotto meccanismi di compensazione economica, ma la discrezionalità resta altissima, sia per i proponenti privati sia per i comuni. La redistribuzione è ancora percepita come una concessione, non come un diritto.

I meccanismi di dibattito pubblico introdotti dal nuovo Codice degli Appalti si applicano sopra soglie molto alte (oltre 300 milioni di euro), e talvolta, anche quando richiesti – come nel caso del progetto offshore Mistral ad Alghero – il ministero può rifiutarli, come è accaduto, sostenendo che la procedura di valutazione impatto ambientale sia sufficiente. Ma, secondo Can, la valutazione ambientale e il confronto pubblico dovrebbero essere strumenti complementari, non alternativi.

C’è chi sta provando a ribaltare il paradigma. La cooperativa èNostra è un caso emblematico: con il progetto dell’impianto eolico collettivo di Gubbio, costruito grazie al contributo di 900 soci, si sperimenta un modello di energia condivisa. La turbina fornisce energia a prezzo calmierato per 12 anni, e ha portato alla creazione di una Comunità energetica con il comune, le associazioni e le imprese locali. Dieci incontri pubblici, partecipazione reale, e un modello che unisce la produzione energetica alla giustizia sociale.

Strumenti di partecipazione

In generale, però, l’approccio resta dall’alto: chi sviluppa propone, ottiene autorizzazioni, e poi informa. La partecipazione si ferma alla conformità normativa, spesso senza cambiare nulla del progetto. Le responsabilità tra livelli di governo si sovrappongono, creando confusione e ritardi. L’effetto è che le rinnovabili vengano vissute non come una promessa collettiva, ma come un’imposizione dall’alto.

Perché la transizione sia davvero giusta, servono strumenti vincolanti e continui di partecipazione, capaci di restituire alle comunità non solo formalmente una voce in capitolo, ma potere. Serve una visione dove l’energia non sia solo un flusso fisico, ma anche un bene comune, che genera benefici condivisi e alleanze territoriali. L’Italia ha già esempi virtuosi. Manca ancora la volontà politica di farli diventare la norma, non l’eccezione.

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