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Che cosa ha combinato Trump in 100 giorni?


I cento giorni di Trump tra sorprese, volatilità e incertezza radicale. Il punto di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM.

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Sono trascorsi i primi Cento Giorni della presidenza di Donald Trump e il bilancio è quantomeno controverso, l’indice di gradimento del presidente è il più basso dai tempi di Franklin D. Roosevelt e più basso di quello, già basso, dei Cento giorni del suo primo mandato. Anche all’estero Trump non gode di grande popolarità, perlomeno non in Canada, in Australia o in Germania, un paese alle prese con le ombre lunghe del suo tragico passato.

COSA PENSANO GLI INVESTITORI DEI PRIMI CENTO GIORNI DI TRUMP?

Dal punto di vista degli investitori, questi primi Cento giorni sono stati caratterizzati da sorprese, volatilità e incertezza radicale. La risposta dei mercati è stata molto diversa da quella del primo mandato, l’entusiasmo iniziale si è prestamente scolorito in scetticismo sulla sostenibilità e sulle conseguenze delle scelte economiche di Trump. Non è solo la contrazione del Pil, rallentano gli investimenti privati, diminuisce la fiducia delle imprese e dei consumatori, le aziende più dipendenti dalle catene di fornitura globali si ritrovano vulnerabili a eventi al di fuori del loro controllo.

La pressione sulle azioni e sui Treasury ha così spostato gli investitori verso i beni rifugio, l’oro e le criptovalute sono sugli scudi, segnale di minore fiducia nei mercati tradizionali. Anche la debolezza del dollaro è un sintomo delle preoccupazioni per il deficit fiscale e, soprattutto, della minore fiducia negli Stati Uniti come partner affidabile. Per quanto un dollaro debole sia stato tra gli obiettivi dell’Amministrazione, è probabile che né Trump né i suoi consiglieri economici abbiano messo in conto il sentimento di “sell America” che si è diffuso tra gli investitori di tutto il mondo.

Lo shock tariffario scatenato dal presidente potrebbe affossare il suo secondo mandato, titolava giorni fa il Wall Street Journal. Per certo ha affondato lo S&P 500, sceso di circa il 21% dai massimi di febbraio, per poi recuperare progressivamente. Il calo dell’indice nei Cento giorni è stato di circa l’8%, tra le peggiori performance in questo arco temporale dai tempi di Gerald Ford.

Trump ha giocato con la credibilità degli Stati Uniti, poche mosse azzardate hanno dilapidato il capitale di fiducia accumulato nei decenni, le dichiarazioni sulla Federal Reserve ne compromettono l’indipendenza e alimentano inutilmente l’incertezza.

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COME VA IL MERCATO DEL LAVORO NEGLI STATI UNITI

Eppure, a dispetto di tutta questa confusione, il mercato del lavoro resiste e prosegue nell’espansione. Il tasso di disoccupazione resta invariato al 4,2%, un livello storicamente basso. Sui dati confortanti dell’occupazione Trump è tornato a chiedere alla Federal Reserve di tagliare i tassi ma non è così vero che l’inflazione non ci sia, come ha scritto nei suoi post. L’indice dei prezzi delle spese per consumi personali è aumentato a marzo di 2,3% rispetto all’anno precedente, un ritmo più lento rispetto a febbraio (2,7%) ma pur sempre sopra l’obiettivo. La Federal Reserve si trova stretta tra l’invito pressante a tagliare i tassi e la minaccia dell’effetto inflazionistico delle tariffe.

Crescono nei sondaggi le probabilità di una recessione e gli analisti hanno aggiornato, riducendole, le aspettative sull’intensità con cui la Federal Reserve ridurrà i tassi d’interesse, è probabile che non ci saranno novità nella riunione di oggi. L’incertezza comincia a riscuotere il suo pegno, il calo della fiducia dei consumatori comincia a materializzarsi nella diminuzione dei consumi, soprattutto nelle fasce meno abbienti della popolazione.

IL TEMA DEI TREASURY

La “Trump put” è stata data per spacciata troppo presto, non è scomparsa del tutto, solo che anziché a Wall Street bisogna guardare ai Treasury, è il mercato dei bond ad avere tutte le carte in mano, per dirla con un’espressione familiare a Trump. Vittima illustre dello shock trumpiano è il dollaro, nelle fasi di turbolenza solitamente gli investitori si rifugiano nei porti sicuri del Treasury e del dollaro. Questa volta no, i rendimenti del decennale americano sono saliti e il dollaro è sceso. È comunque presto per concludere con certezza se siamo all’inizio di una inversione di rotta verso il ripristino di una certa normalità, o se siamo solo in una pausa prima che l’amministrazione riprenda l’agenda delle tariffe.

Restiamo ai fatti: è in corso una riallocazione degli asset americani, ma prudenza nel dichiarare esaurita l’egemonia degli Stati Uniti e dimenticare le dimensioni e la dinamicità del sistema economico americano. Negli ultimi vent’anni, le aziende americane hanno registrato i più forti margini di guadagno rispetto agli altri mercati, hanno investito di più nell’innovazione, sono state più rapide nell’adozione delle nuove tecnologie.



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