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Sostenibilità in Italia come siamo messi


Mi sono accorta che c’era qualcosa che non andava, in me, quando mio figlio già alle elementari per educazione civica studiava le voci dell’Agenda 2030 dell’Onu e la cosa mi è sembrata incredibile, avanguardia pura. Dopo tutti i documentari pieni di attivisti per cui ho pagato il biglietto, gli articoli dei giornali letti e anche quelli che abbiamo appassionatamente pubblicato su Marie Claire, in fondo ero rimasta a un civismo primonovecentesco, fatto di buone maniere, tasse pagate, rispetto dei semafori, bicicletta (ma a volte sul marciapiede, il che annulla tutti i punti guadagnati). A cui magari si poteva affiancare una certa sensibilità ambientale, ma sempre portata avanti con un brivido di esotismo, con un senso di distacco dovuto alla consapevolezza, ammettiamolo, che far bene la raccolta differenziata, chiudere il rubinetto mentre ci si spazzolano i denti o sudare un po’ di più accendendo meno aria condizionata non avrebbe cambiato le sorti del mondo, e nemmeno dell’Italia. Ecco, forse il problema è proprio questo. I temi della sostenibilità e della transizione energetica continuano a popolare i nostri discorsi – con gli attuali accadimenti geopolitici e vaticani un po’ meno ma si spera sia una fase transitoria – e a ispirare tante lodevoli iniziative, ma poi, nella sostanza, non sono entrati nelle nostre vite al punto da vederle cambiare. Procediamo in questo limbo che si estende elastico tra la realtà come dovrebbe essere e la realtà come si presenta, investiti da dolorose fitte di ecoansia, e anzi all’improvviso tramortiti da una brutta aria di non cambiamento, come se quelle istanze di transizione che sembravano a portata di mano si fossero rivelate all’improvviso il colpo di testa di una massa di adolescenti esagitati e utopisti. Sono poche le occasioni di rimettere a terra le idee, guardare ai numeri, fare il punto su cosa sta, anche se faticosamente, cambiando (ora che siamo a un passo dal tirare la riga rispetto a quella benedetta agenda), e cosa no, e il Festival dello Sviluppo Sostenibile è forse la più significativa dell’anno. Promosso da ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), giunto alla nona edizione, per 17 giorni (quanti gli Obiettivi dell’Agenda 2030) e in 7 tappe in altrettante città racconterà il coinvolgimento della società civile insieme al mondo delle imprese e alle istituzioni rispetto a questi temi, e con le centinaia di iniziative in programma vuole farci sentire meno soli di fronte a una sfida sempre più grande e imponente man mano che ci si avvicina. Abbiamo chiesto a Enrico Giovannini, Direttore scientifico di ASviS (professore ordinario di Statistica economica e Sviluppo sostenibile all’Università di Roma “Tor Vergata”, ex ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili del Governo Draghi e appena nominato dal Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres membro del gruppo indipendente, formato da 14 esperti di alto livello, incaricato di elaborare nuovi sistemi di valutazione del benessere che integrino e vadano oltre il Prodotto interno lordo), di fare un punto su come è messo il nostro Paese a proposito della suddetta sfida.

Dove siamo più indietro, in Italia, rispetto agli obiettivi dell’agenda 2030 dell’Onu?
Il rapporto Asvis di ottobre scorso evidenzia che l’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile rispetto ai 17 obiettivi fissati dall’agenda 2030 dell’Onu nel 2015. Su ben sei obiettivi, tra cui quelli relativi a povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, partnership e governance, l’Italia nel 2023 sta peggio rispetto addirittura al 2010. Siamo andati indietro. Per molti altri obiettivi – educazione, salute, evoluzione rispetto alle disuguaglianze di genere – il miglioramento è stato contenuto. Quanto all’economia circolare invece, l’Italia è cresciuta in modo piuttosto consistente nel corso degli anni. Essendo povera di materie prime, il loro riuso, insieme a quello dei prodotti già esistenti, è una cifra della sua economia fin dal 1300, basti pensare a Prato e al riciclo dei tessuti, ma comunque in generale, storicamente, le imprese italiane sono molto attente a questi aspetti.

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«Quanto all’economia circolare , l’Italia è cresciuta in modo piuttosto consistente nel corso degli anni»

Un po’ pochino?
Il quadro è preoccupante, ancora di più guardando agli indicatori specifici di una serie di elementi che sono inseriti nell’agenda 2030. Su ben 37 indicatori, per 22 non c’è modo di raggiungere l’obiettivo 2030. Faccio un esempio, dovremmo raggiungere il 45% di giovani laureati, ma siamo intorno al 30%, oppure sulle energie rinnovabili dovremmo raggiungere i limiti fissati dall’Unione Europea e siamo chiaramente in ritardo a causa della disattenzione da parte dei diversi governi che si sono succeduti dal 2015. Una disattenzione che è anche rispetto ai rischi legati alla crisi climatica da una parte, e delle opportunità che la transizione ecologica e digitale invece offre dall’altra. Il nostro Paese deve accelerare al massimo negli anni che ci restano da qui al 2030, ma anche oltre.

«Su ben 37 indicatori, per 22 non c’è modo di raggiungere l’obiettivo 2030»

La sensazione, spesso, è che la base sia più consapevole, rispetto a questi temi, di quanto non lo siano i governanti. Lei come la vede?
Nel rapporto cosiddetto di primavera che abbiamo presentato in occasione dell’apertura del Festival dello sviluppo sostenibile, emerge chiaramente questa forbice. I dati Istat, i dati Unioncamere, i dati Sace, quelli di The European House Ambrosetti, tutti convergono nel mostrare che le imprese italiane che hanno investito in transizione ecologica e digitale hanno aumentato la produttività, la redditività, l’occupazione e sono anche più solide sul piano finanziario. Eppure il messaggio che passa soprattutto in questo periodo è che competitività e sostenibilità siano due termini antitetici. È semplicemente falso sulla base dei dati scientifici, ma sta influenzando le politiche. Oggi si racconta che dobbiamo rallentare, aspettare, rinviare la transizione ecologica, il che costituisce invece un errore enorme, perché come dice il rapporto che abbiamo appena presentato, sulla base delle simulazioni dei diversi scenari che abbiamo fatto insieme a Oxford Economics, emerge che rinviare è ancora più dannoso che procedere troppo lentamente, come stiamo facendo ora. Non lavorare a contenere gli effetti catastrofici delle proiezioni climatiche è, ovviamente, un disastro per l’economia, oltre che per la società.

«Il messaggio che passa soprattutto in questo periodo è che competitività e sostenibilità siano due termini antitetici. È semplicemente falso sulla base dei dati scientifici, ma sta influenzando le politiche»

E quindi?
Ci restano due possibili scenari: il primo è quello di fare la transizione energetica, che ci dovrebbe portare come Italia alla carbon neutrality nel 2050, considerandola come un fatto isolato dal resto, e in questo caso si evidenzia un effetto negativo sul Pil fino al 2050, perché per poter usare il sistema capitalistico per fare la transizione bisogna imporre delle carbon tax, che aumentano l’inflazione, che riduce i redditi e il Pil. Ma se invece consideriamo lo scenario Net Zero Tranformation, cioè abbiniamo alla transizione energetica quella digitale e trasformiamo il nostro modo di funzionare con investimenti consistenti, la situazione si ribalta completamente, e i diversi settori economici italiani – per la prima volta il rapporto di primavera di quest’anno ci illustra le simulazioni anche riguardo ai singoli settori – migliorano tutti. Eccetto ovviamente l’estrazione dei combustibili fossili.

Cosa possiamo imparare da tutto questo?
Che di fronte alle difficoltà che sono intorno a noi dobbiamo accelerare, non rallentare. L’accelerazione migliora la competitività e la produttività, crea posti di lavoro e rende il Paese più solido anche finanziariamente. Infatti nonostante l’aumento degli investimenti pubblici, il rapporto tra debito pubblico e Pil, nello scenario Net Zero Transformation, migliora. Per cui la vera domanda è: perché non lo stiamo facendo?

«Nonostante l’aumento degli investimenti pubblici, il rapporto tra debito pubblico e Pil, nello scenario Net Zero Transformation, migliora. Per cui la vera domanda è: perché non lo stiamo facendo?»

E qual è la risposta?
Ci sono soggetti, settori che non vogliono cambiare, anche perché alcuni sanno che cambiare per loro vuol dire rischiare di uscire dal mercato o doversi trasformare profondamente. Queste voci sono più forti di quelle di chi lo sta facendo, efficacemente, senza proclami.

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Ci può fare un esempio virtuoso?
Ce ne sono molti, Istat è appena uscita con una ricerca su questo argomento che dimostra come tante imprese italiane nei vari settori fanno innovazione rispetto a sostenibilità, economia circolare, transizione ecologica, anche sviluppando nuove idee. Penso alle batterie innovative che possono essere riciclate quasi integralmente. In un momento in cui tutto il settore della transizione ecologica sta accelerando dal punto di vista tecnologico. Pensiamo agli annunci fatti nei giorni scorsi di grandi produttori di auto elettriche cinesi ma non solo, che hanno mostrato le nuove batterie, che non solo durano per tanti chilometri, ma invece di essere al litio sono al potassio, al sodio, materie di cui l’Europa è molto ricca. L’ultimo rapporto dell’Irena, Agenzia Internazionale dell’energia rinnovabile mostra chiaramente che nel 2024 la stragrande maggioranza (oltre il 90%) degli investimenti in campo energetico sono sulle rinnovabili. Il mondo sta andando in questa direzione: e noi come Italia potremmo beneficiare della conformazione del nostro territorio, la disponibilità di sole, di vento. E invece vediamo tanti rallentamenti che ci condannano tra l’altro a un prezzo dell’energia molto alto che non fa bene né alle famiglie né alle imprese.

«L”innovazione nel nostro Paese ha già portato a sviluppare nuove tecnologie, penso alle batterie che possono essere riciclate quasi integralmente»

Cosa ci sfugge rispetto alle grandi potenze economiche d’Oriente, che ancora guardiamo con diffidenza, come arretrate rispetto alla consapevolezza ecologica e alla cultura sulla sostenibilità?
Sono stato recentemente in Cina e colpisce che là le auto elettriche abbiano la targa verde mentre le auto a motore termico sono blu, e costituiscono una minoranza, l’eccezione. La Cina si è mossa tempestivamente per motivi economici e politici prima che ambientali, per conquistare un’autonomia dal punto di vista energetico, che poi è la stessa necessità che ha l’Europa per non restare esposta alle tensioni internazionali. La Cina raggiungerà la carbon neutrality nel 2060 (invece che nel 2050 come l’Europa ha deciso di fare). Ma in realtà varie stime indicano che probabilmente ce la farà nel 2045, perché la velocità con cui stanno investendo nelle energie rinnovabili è altissima. Rispetto alla sua domanda, direi che ci sfugge che la transizione energetica è in prima istanza una questione di sicurezza nazionale.

«La Cina si è prefissata di raggiungere la carbon neutrality nel 2060 (invece che nel 2050 come l’Europa ha deciso di fare). Ma in realtà varie stime indicano che probabilmente ce la farà nel 2045»

Qual è lo stallo principale ora?
La frammentazione delle decisioni, e il fatto che alcune regioni hanno iniziato a dire che il loro territorio è in gran parte inadatto alle rinnovabili, cosa che sta bloccando i progetti di installazione e crea un problema, oltre che ambientale, sociale.

Rispetto alla questione del consumo del suolo, come siamo messi?
È un problema molto rilevante, e l’Italia da anni non riesce a dotarsi di una legge che regoli in qualche modo questa situazione. Lo dico anche da ex ministro, ero arrivato a un passo, durante il governo Draghi, dal far approvare in parlamento una legge sulla rigenerazione urbana. La Nature Restauration Law è molto importante perché non indica solo la necessità di restaurare il 30% del nostro territorio con tutta una serie di scadenze nei prossimi anni, ma di fatto per i comuni con oltre i 50mila abitanti definisce uno stop al consumo di suolo, e proprio domani, 9 maggio, a Genova, in occasione dell’evento del Festival dello Sviluppo Sostenibile dedicato alla biodiversità, Asvis pubblicherà un policy brief esattamente su questo tema. Dobbiamo considerare la rigenerazione urbana e il ripristino della natura come una grande opportunità di creare posti di lavoro, sviluppo tecnologico, miglioramento della qualità della vita nelle nostre città, soprattutto. Entro il 2026 l’Italia dovrà produrre un piano per il ripristino della natura e Asvis propone di anticipare tutto questo alla fine del 2025 in modo da inserirlo nella programmazione di bilancio post Pnnr. Purtroppo notiamo che nel piano strutturale di bilancio predisposto dal Governo a settembre non c’è nulla in questa direzione. Così come non c’è quasi nulla sulla questione della direttiva cosiddetta “case green”.

«Dobbiamo considerare la rigenerazione urbana e il ripristino della natura come una grande opportunità di creare posti di lavoro, sviluppo tecnologico, miglioramento della qualità della vita nelle nostre città, soprattutto»

Uno spunto da cui ripartire?
In questo Paese pensiamo troppo al fatto che la questione ambientale sia puramente ambientale. E invece è connessa non solo alla qualità della vita e dunque alla dimensione sociale, ma anche alla capacità di generare opportunità lavorative, economiche. Dovrebbero essere questi due aspetti, molto molto concreti, a guidare le nostre scelte.



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