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È nei mari il nuovo capitolo della battaglia commerciale di Trump


Dopo l’introduzione globale di dazi generalizzati verso tutto il mondo, l’Amministrazione Trump ha inaugurato un nuovo capitolo di ostilità nei confronti di Pechino, già colpita da tariffe fino al 145%. Con un ordine esecutivo emanato ad aprile, il Presidente Trump ha annunciato nuove tariffe sulle navi commerciali appartenenti a compagnie cinesi o costruite in Cina. Una mossa volta a ricostruire un’industria marittima e cantieristica nazionale capace di sostenere gli interessi commerciali del Paese e contribuire alla sicurezza economica. Si tratta di un ulteriore passo nel tentativo dell’attuale amministrazione di riportare la capacità manifatturiera entro i confini statunitensi.

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Tuttavia, sebbene la crisi del settore sia legata alla perdita di competitività dell’industria americana nel suo complesso, la situazione della cantieristica e della marina mercantile statunitense è anche il risultato della mancanza di investimenti nelle infrastrutture marittime, in particolare a partire dagli anni Ottanta. Attualmente, circa l’80% del naviglio mercantile è prodotto in Cina, i cui cantieri navali sono in grado di costruire circa 1.700 navi l’anno, contro le sole 5 realizzate negli Stati Uniti.

L’ordine esecutivo è stato rivisto più volte, segno che l’opposizione dell’industria marittima, sia nazionale che globale, ha avuto un impatto sulle decisioni finali. Sono previsti due tipi di tariffe.

In primo luogo, saranno applicate tariffe alle navi possedute o gestite da armatori cinesi. A partire dal 14 ottobre, queste navi, se attraccheranno in porti statunitensi, saranno soggette a una tariffa di 50 dollari per tonnellata netta, che salirà gradualmente fino a 140 dollari a tonnellata nell’aprile 2028.

Un secondo tipo di tariffa colpirà le navi costruite in Cina. Sempre da ottobre, queste navi saranno soggette a una tariffa di 18 dollari per tonnellata netta oppure di 120 dollari per container sbarcato nei porti americani.

Tuttavia, in entrambi i casi, sono previste numerose esenzioni. In particolare, le tariffe non potranno essere applicate più di cinque volte l’anno a una stessa nave in arrivo nei porti statunitensi. Queste misure potrebbero perciò indurre una riorganizzazione degli scambi con gli Stati Uniti, favorendo l’utilizzo di navi non cinesi, dirottate da altre rotte internazionali, per evitare le nuove tariffe.

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Nella visione dell’Amministrazione americana, il ritorno alla preminenza industriale degli Stati Uniti passa anche attraverso il lancio di un Maritime Industrial Plan (MAP). Il piano punta, in primo luogo, alla semplificazione normativa e burocratica per incentivare gli investimenti nel settore. L’obiettivo principale è incrementare la presenza di tonnellaggio commerciale “made in USA” nelle flotte internazionali, in modo da disporre di asset prontamente utilizzabili anche per esigenze di sicurezza nazionale.

In secondo luogo, il Piano prevede l’adozione di misure coordinate con gli alleati e i Paesi like-minded, simili a quelle statunitensi nei confronti della Cina. Al tempo stesso, viene sottolineata – come già avvenuto in altri settori – l’importanza di introdurre incentivi per attrarre capitali da parte di aziende cantieristiche alleate, con l’obiettivo di rafforzare la capacità produttiva navale degli Stati Uniti. Una strada che potrebbe aprire nuove opportunità anche per l’italiana Fincantieri.

Infine, il piano prevede l’elaborazione di una strategia volta a individuare obiettivi e strumenti per garantire la sicurezza dei commerci americani nella regione artica, alla luce dei crescenti rischi per la sicurezza in quell’area.

L’altra grande sfida per la tutela degli interessi economici e strategici degli Stati Uniti, considerata ormai improrogabile dalla nuova amministrazione, riguarda il controllo di uno dei chokepoints fondamentali del commercio internazionale: il Canale di Panama. In particolare, l’attenzione si concentra sui due principali porti atlantico e pacifico del Canale, finora controllati dal gruppo cinese Hutchison Ports. Sebbene il Canale rappresenti solo il 4% del commercio globale, da esso dipende circa i due terzi del traffico marittimo statunitense, in particolare quello tra la costa atlantica e l’area Asia-Pacifico. Il Presidente Trump, appena insediato, non ha escluso l’uso della forza per riprendere il controllo di un’infrastruttura ritenuta fondamentale per la sicurezza nazionale.

La questione sembrerebbe avviarsi verso una soluzione complessiva, che dovrebbe concretizzarsi nella cessione da parte del gruppo Hutchison di 41 porti, situati nei principali mercati concorrenti, a una cordata guidata dal gruppo MSC (con il 51%) e con una quota di minoranza riservata alla statunitense BlackRock. Nei due porti principali del Canale di Panama, invece, la maggioranza dovrebbe essere acquisita proprio da BlackRock, a garanzia degli interessi economici e strategici degli Stati Uniti.

Si delinea quindi un quadro in rapida evoluzione, nel quale le mosse americane non sempre appaiono coerenti, soprattutto in relazione ai rapporti con i partner occidentali. Le stesse misure contro l’industria cantieristica e le compagnie marittime cinesi risultano facilmente aggirabili, anche a causa delle numerose esenzioni previste. Inoltre, considerate le attuali condizioni del settore navale americano, il recupero della leadership sembra un obiettivo a lungo termine, perseguibile solo attraverso una chiara e coerente politica industriale.



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