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l’Europa fra territori più innovativi e più deboli


L’Europa deve affrontare due grandi problemi: da un lato la crisi demografica, dall’altro la stagnazione della produttività. Se non invertiamo queste tendenze, il nostro sistema di Welfare diventerà insostenibile. L’Europa non è pronta a questa sfida, rileva il Rapporto Draghi. Di fronte alla rivoluzione digitale iniziata nel 1995 con il web, gli Stati Uniti hanno saputo correre. L’Europa no. Dati recenti confermano questo svantaggio: tra le 50 imprese che nel 2023 hanno depositato più domande all’Ufficio europeo Brevetti, il 72% proveniva da Asia o America e solo il 28% da imprese europee (nessuna italiana).

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All’origine del problema c’è la frammentazione politica, normativa e geografica del mercato comune, che ha penalizzato il settore innovativo. Superarla è necessario per sfruttare meglio “economie di densità” essenziali in un’economia trainata dalla conoscenza, che richiedono di concentrare in pochi grandi hub di eccellenza capitale umano, competenze, finanza innovativa. Per crescere più rapidamente, all’Europa serve dunque più agglomerazione. Tuttavia, agglomerare significa anche attrarre risorse dalle aree già deboli, rischiando così di aumentare le disparità regionali. È questo il prezzo da pagare per realizzare un’Europa più dinamica e innovativa? Proveremo ad affrontare di seguito questa domanda.

Un doppio problema geografico. Una prima risposta la suggerisce un confronto tra dati territoriali europei e statunitensi. Come mostra Joaquim Oliveira-Martins, emergono due differenze chiave. 1) Il contributo delle aree urbane: negli ultimi vent’anni la crescita della produttività americana (+26%) è dipesa per il 70% dal ruolo delle grandi città. In quella europea, più bassa (+17%), il contributo delle aree urbane è molto inferiore (38%). Questi numeri rafforzano l’idea del Rapporto Draghi: il ruolo economico delle città europee deve crescere. 2) La performance delle aree periferiche: anche le aree non urbane degli Stati Uniti mostrano risultati migliori di quelle europee. In Europa le regioni periferiche sembrano meno capaci di trarre benefici dai progressi delle aree più avanzate.

Questi dati consentono di trarre due conclusioni. La prima è negativa: c’è una doppia fragilità europea che definisce un quadro persino peggiore di quello descritto dal Rapporto Draghi. La seconda è potenzialmente positiva: i dati americani analizzati da Oliveira-Martins suggeriscono che più agglomerazione non comporta necessariamente maggiore divergenza regionale.

Far convivere alta efficienza di sistema con ridotti divari territoriali sembra dunque possibile. Ma come si raggiunge questo risultato? Lo si ottiene grazie al libero operare delle forze di mercato o servono politiche pubbliche mirate? Per rispondere, è necessario prima dedicare qualche riga ai principali meccanismi che accompagnano i processi di agglomerazione.

Uno schema per capire meglio. Immaginate due regioni specializzate in due settori: uno innovativo e l’altro tradizionale. Ipotizzate inoltre che concentrare l’attività del primo settore in un luogo specifico (il core) ne migliori la produttività e la capacità di sviluppare nuove tecnologie. In generale, le forze di mercato tendono a favorire questa concentrazione. In un contesto di questo tipo, l’altra regione si specializza nella produzione del bene tradizionale. In un’economia con queste caratteristiche, studiata in alcuni importanti lavori di Paul Krugman e Robert Lucas Jr., il divario tra la regione core e l’altra dipende da quanto la conoscenza creata dal settore innovativo è utile anche al settore tradizionale. (Per capirci, pensate agli sviluppi dell’Intelligenza artificiale e alla possibilità che siano applicabili anche in un settore come l’agricoltura, tecnologicamente e geograficamente distante.)

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In questo scenario, un trasferimento di risorse e forza lavoro dalla periferia al core tende ad accentuare i divari. In assenza di interventi correttivi da parte dell’azione pubblica, questo risultato sembra inevitabile. Ma esistono interventi capaci di contrastare questa tendenza? Nello schema discusso fin qui, la risposta è positiva. Aumentare la capacità delle regioni periferiche di adottare le innovazioni generate nel core riduce il divario senza impedire il processo di agglomerazione. Questo in teoria. Nella realtà le cose si complicano molto.

Negli ultimi trent’anni i divari regionali non si sono affatto ridotti: gli indici di dispersione territoriale sono aumentati e i divari in Europa restano più alti che negli Stati Uniti

Le politiche di coesione: funzionano? In Europa le politiche per sostenere le regioni in ritardo esistono dagli anni Ottanta. Dal 2007 sono state finanziate con circa 50 miliardi di euro all’anno. Negli ultimi trent’anni, però, i divari regionali non si sono affatto ridotti. In particolare: a) gli indici di dispersione territoriale (NUTS2) sono aumentatib) i divari in Europa restano più alti che negli Stati Uniti, malgrado gli Stati Uniti abbiano indici di agglomerazione maggiori; c) oggi molte regioni europee appaiono incastrate in “trappole di sviluppo”, incapaci cioè di adottare le necessarie riforme strutturali.

Casi emblematici confermano questo quadro. Uno è il Mezzogiorno italiano, dove il Pil pro capite è fermo da decenni al 60% di quello del Centro Nord. Un altro è l’ex Germania Est, il cui gap di Pil pro capite è ancora inferiore di 25-30 punti percentuali rispetto a quello del resto del Paese. In nessuno di questi casi la persistenza del divario può essere attribuita a carenze di risorse pubbliche a sostegno dello sviluppo territoriale.

Risultati così deludenti dipendono naturalmente da molti fattori. Col passare del tempo l’attenzione degli analisti si è sempre più concentrata sul ruolo della qualità delle istituzioni locali nel determinare l’efficacia delle politiche regionali. Molte analisi empiriche confermano la rilevanza di questa ipotesi: le istituzioni locali delle regioni in ritardo hanno spesso indici di performance negativi. Cosa determina questo frequente “fallimento istituzionale”? Capirlo è essenziale. Non si disegnano politiche efficaci se non si ha un’idea di cosa può impedirne l’attuazione.

Le istituzioni possono fallire. Sul tema esistono intere biblioteche. Mi limito a segnalare due meccanismi che possono rendere malfunzionanti le istituzioni locali in determinati contesti. Il primo è politico-elettorale. Un buon esempio di questo meccanismo è offerto da uno studio recente su regioni a basso reddito con forza lavoro in maggioranza non qualificata. In queste condizioni può emergere una forte domanda politica a favore di azioni pubbliche che proteggano l’esistente, anziché a sostegno di riforme innovative ma rischiose per chi possiede competenze obsolete. I politici locali, sensibili a questa domanda, hanno l’incentivo a favorire le prime a discapito delle seconde, quelle pro-sviluppo. Questo problema, che genera una sorta di “trappola di sviluppo”, sorge “quando sono i governi locali a gestire i fondi delle politiche territoriali, non quando essi sono amministrati da autorità nominate centralmente, che non si rivolgono direttamente agli elettori locali”.

Il secondo meccanismo è di natura socio-culturale. Numerosi studi dimostrano che, sul piano territoriale, ritardo economico e basso capitale sociale tendono a sovrapporsi. In contesti con scarso capitale sociale, vengono meno le norme condivise necessarie a prevenire l’uso opportunistico delle risorse pubbliche. Ne consegue che, per esempio, il reclutamento per incarichi amministrativi – anziché basarsi sul merito – si affida spesso a reti clientelari, compromettendo l’efficacia dell’azione pubblica. È ciò che accade in molte aree del Mezzogiorno italiano, come evidenziato dal pionieristico lavoro di Robert Putnam. Così, oltre al vincolo politico-elettorale che favorisce l’adozione di politiche conservative, si aggiunge il rischio che anche interventi più innovativi, pro sviluppo, si arenino a causa di istituzioni locali malfunzionanti.

In entrambi i casi, superare una situazione che deriva da cause così profonde e persistenti richiede azioni di contrasto lungimiranti e tempi lunghi. Le attuali politiche di coesione non sembrano all’altezza di questa sfida.

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Per avere successo, la strategia indicata dal Rapporto Draghi deve trovare un sostegno convinto e diffuso, ben più ampio di quello offerto dalle sole aree urbane più ricche

Il problema delle politiche di coesione. Al centro delle politiche di coesione dell’Unione europea c’è l’approccio conosciuto come place-based. Secondo la definizione che ne dà il Barca Report, si tratta di una strategia che si rivolge a “territori funzionali” per valorizzarne il potenziale inespresso e contrastare l’esclusione sociale, attraverso interventi su misura basati su condizioni e bisogni locali.

Il Barca Report è del 2009. È stato indubbiamente un documento innovativo e ha contribuito molto a far capire l’importanza delle politiche territoriali. Negli anni trascorsi dalla sua presentazione sono inevitabilmente emersi alcuni suoi limiti. Uno di questi riguarda i ruoli attribuiti ai vari livelli di governo. Secondo il Rapporto, la progettazione e la gestione degli interventi va assegnata al livello locale, mentre i livelli superiori hanno il ruolo di definire le priorità, di allocare le risorse e di offrire supporto. Nel caso in cui le istituzioni locali funzionino male, si sostiene per esempio che non sia “opportuno che le migliori pratiche vengano identificate e raccomandate a livello centrale”; i livelli superiori del governo dovrebbero invece aiutare le istituzioni locali ad adottare consolidati principi generali nella gestione delle politiche territoriali.

Semplificando, l’idea qui è che il superamento delle eventuali barriere locali all’adozione di politiche efficaci vada affidato ad azioni di institutional building attraverso cui migliorare l’efficienza delle istituzioni del territorio. Gli indici regionali di qualità istituzionale mostrano però che questo approccio non ha raggiunto il risultato desiderato: malgrado gli ingenti finanziamenti a sostegno della capacità istituzionale locale, nelle regioni in ritardo non si registrano miglioramenti significativi.

Aggirare gli ostacoli. Poiché rimuovere ostacoli di quella natura richiede tempo, bisogna avere chiaro che cosa fare in attesa che il risultato venga raggiunto. Nei due casi analizzati sopra, è bene notare che le barriere che abbiamo richiamato agiscono sul livello locale del governo. Aggirarle dunque è possibile. La soluzione è portare la responsabilità della gestione delle politiche regionali a livelli in cui è più debole l’influenza esercitata dalle preferenze dell’elettorato locale o dal livello di capitale civico della comunità territoriale.

Esperienze passate e attuali forniscono esempi importanti di governance di successo basate su questa soluzione. Tra le prime c’è quella, molto nota, della Tennessee Valley Authority negli Stati Uniti; un’altra, ispirata proprio dalla Tva, è la Cassa per il Mezzogiorno, un’agenzia di sviluppo disegnata per agire al riparo da gruppi di pressione locali interessati alle proprie rendite più che allo sviluppo complessivo del territorio. Nella sua prima fase, quella di maggior successo, l’azione della Cassa ha coinciso con l’unico lungo periodo in cui il Mezzogiorno è cresciuto più rapidamente del Centro Nord, riuscendo a ridurre le distanze. Poi più nulla: un divario enorme rimasto costante dal 1970 a oggi.

Questo per il passato. Ma c’è anche un’esperienza in corso che merita attenzione. È il Pnrr. Come ha sottolineato di recente Nicola Rossi, la governance del Piano si differenzia da quella delle politiche di coesione. Nel Pnrr il disegno e la gestione degli interventi sono nettamente più centralizzati per evitare che prevalgano interessi particolari. I primi risultati sembrano incoraggianti. Secondo Rossi “nel Mezzogiorno la spesa pubblica in conto capitale targata Pnrr [è] oggi decisamente più incisiva di quanto non sia accaduto in passato nel caso dei fondi di coesione”.

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In generale, l’approccio place-based esige che le politiche territoriali siano calibrate sul contesto in cui si applicano. Diversamente da quanto è avvenuto finora, questa consapevolezza del contesto dovrebbe riguardare anche la scelta del livello di governo più adatto a gestirle. Scardinare rendite di posizione consolidate e avviare trasformazioni economiche e sociali complesse è una sfida politicamente molto difficile. Non sempre il livello locale del governo è il più adeguato ad affrontarla.

Per avere successo, la strategia indicata dal Rapporto Draghi deve trovare un sostegno convinto e diffuso, ben più ampio di quello offerto dalle sole aree urbane più ricche. Uno scenario difficilmente immaginabile senza un ripensamento profondo delle attuali politiche di coesione.



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