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Buste paga pesanti per chi fa impresa. Ma troppo leggere per chi ci lavora




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Non si possono aumentare i salari per legge, alleggerire il carico fiscale per i datori di lavoro sì. Le buste paga sono troppo pesanti per chi fa impresa e troppo leggere per chi ci lavora. Un aumento di un euro del costo del lavoro genera solo 0,68 euro netti in busta paga per un lavoratore single con salario medio, a fronte di una media Ocse di 0,86 euro. È il paradosso certificato dal rapporto Ocse 2025: a parità di potere d’acquisto, un italiano guadagna in media 41.438 dollari all’anno (meno della Spagna e in linea con Turchia e Polonia) contro i 45.123 dollari di media e ne costa 78.312, quasi il 10% in più della media Ocse di 71.277 dollari.

La detassazione dei salari funziona se accompagnata a una congiuntura economica favorevole. Quella che il centrosinistra al governo ha più volte intercettato con soluzioni pasticciate: dai bonus che hanno creato un buco di bilancio (vedi il Superbonus 110%) alla selva di deduzioni e detrazioni che disperdono preziose risorse fino al Reddito di cittadinanza, destinato a chi ha perso il lavoro e finito invece a mafiosi, delinquenti e ai soliti furbetti.

Anche la famigerata spending review con i tagli lineari, tanto strombazzata dalla sinistra, non ha portato alcun risultato, anzi. In un accesso agli atti pubblicato dal Giornale, la Ragioneria dello Stato aveva ammesso alla Commissione europea che il risultato della spending review veniva preso in considerazione solo «occasionalmente», senza valutarne costi e benefici, con conseguenze sciagurate sulla «generale efficienza ed efficacia delle risorse allocate».

L’opposizione ancora ieri straparlava della necessità di adottare in Italia un salario minimo, la risposta falsa al problema (vero) del precariato. L’Italia ha una contrattazione collettiva al 97%, il salario minimo di Confindustria è ampiamente superiore a quello individuato da sindacati, Pd e M5s tra i 9 e i 10 euro. Servono più soldi in tasca ai 4,5 milioni di italiani con contratti inferiori ai mille euro, sotto il 60% del reddito mediano, giovani ma anche over50 espulsi dal mercato del lavoro e vittime di contratti pirata senza diritti come maternità, ferie e malattia. Come dice spesso l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi «anche la precarietà non può essere abolita per legge». Dinamiche salariali che dipendono da un mercato ingessato e poco competitivo, senza quella «formazione continua» per aiuterebbe chi è costretto a cambiare lavoro ma anche avrebbero beneficio dal recupero di forme negoziali troppo frettolosamente contingentate, come i voucher. D’altronde, sempre più «mestieri» sono a rischio automazione, dalle casse dei supermarket alle pompe di benzina, fino al lavoro in banca e alle Poste. Se si impone un aumento del salario, è facile che si trasferisca sul prodotto e sul consumatore, aumentando la propensione al lavoro nero, specie al Sud.

Di segno diverso è stato in questi due anni l’approccio dell’esecutivo, tradotto in riforme dal viceministro delle Finanze Maurizio Leo (nella foto): abbassamento dell’Irap e delle aliquote Irpef, partendo dalla più bassa (al 23% dal 25% fino a 28mila euro) con l’obiettivo di includere nella seconda aliquota del 35% – e al più presto, magari grazie ai soldi delle rottamazioni delle cartelle, difficilmente esigibili nel 90% dei casi – i redditi oltre i 60mila euro, cioè quel ceto medio spina dorsale del Paese che fa andare avanti l’economia. Il disegno di legge Salari prevederebbe contributi zero per tre anni per le imprese che assumono under 30 e una flat tax al 5% per cinque anni per i nuovi assunti con reddito fino a 40mila che già esiste per le partite Iva sotto i 15mila euro.

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Anche le risorse della lotta all’evasione fiscale sono aumentate perché è cambiato l’approccio: non più demonizzare chi non riesce a pagare i debiti ma colpire con durezza solo chi evade, elude o aggira l’Erario con frodi e raggiri. Da qui la svolta, con sanzioni e multe più leggere e depenalizzazione se chi non paga è incolpevole, vorrebbe pagare ma non ce la fa e una maggiore compliance tra contribuente e fisco.

Altre risorse verranno drenate dalla selva delle tax expenditure, che si mangiano oltre 156 miliardi tra deduzioni e detrazioni per lo più inefficaci, mentre resteranno quelle utili «a stimolare il contrasto di interessi». La differenza tra fatturare o meno significa non pagare l’Iva, l’imposta più evasa d’Europa.

Ma quel 22% deve essere contendibile, non più solo appannaggio di chi preferisce incassare soldi in nero. Questo vuol dire in futuro incentivare un certo tipo di spese tracciabili e renderle detraibili, per generare il circuito virtuoso alla base di un’economia sana.



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