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Ristrutturazione del Debito nelle Piccole e Medie Imprese: Strategie Legali


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Studio Monardo, gli avvocati specializzati in cancellazione debiti delle piccole e medie imprese, abbiamo realizzato per te una guida dedicata alla ristrutturazione del debito della piccola e media impresa.

Buona lettura e in fondo alla guida troverai tutti i contatti del nostro Studio Legale specializzato per richiedere una consulenza:

Introduzione:

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale che, dal 15 luglio 2022, ha sostituito il fallimento nella disciplina dell’insolvenza in Italia . Si tratta di un processo legale finalizzato a liquidare il patrimonio di un imprenditore insolvente per soddisfare nella miglior misura possibile i creditori, secondo le regole della parità di trattamento (par condicio creditorum). La riforma introdotta col Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 12 gennaio 2019 n.14, come corretto dal D.lgs. 26 ottobre 2020 n.147 e D.lgs. 17 giugno 2022 n.83) ha mantenuto l’impianto essenziale del vecchio fallimento, innovando terminologia e procedure per renderle più snelle ed efficienti.

Questa guida offre un quadro tecnico ma accessibile della liquidazione giudiziale, aggiornato ad aprile 2025 e basato sulla normativa vigente. È pensata per gli imprenditori, che potranno comprendere: i requisiti per l’apertura della procedura, le fasi passo-passo, i ruoli e doveri propri e del proprio avvocato nelle varie fasi, gli atti da evitare perché pregiudizievoli, gli effetti economici, fiscali e reputazionali del fallimento, i rapporti con creditori (inclusi dipendenti ed enti pubblici), nonché le possibili alternative (come il concordato preventivo o altre soluzioni di crisi) per evitare o gestire diversamente l’insolvenza. Infine, verranno illustrati casi pratici e recenti pronunce giurisprudenziali che chiariscono l’applicazione delle norme, e si elencheranno tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate.

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Importante: Dal momento che il Codice della Crisi è soggetto a continui aggiornamenti (da ultimo il Decreto Correttivo-ter D.lgs. 136/2024), è fondamentale per l’imprenditore restare informato sulle novità normative e sulle prassi dei tribunali. Un avvocato specializzato può guidare l’imprenditore attraverso questa procedura complessa, assicurando il rispetto delle norme e la tutela dei diritti in ogni fase. Vediamo dunque nel dettaglio come funziona la liquidazione giudiziale e quale supporto può offrire il legale.

Definizione della Liquidazione Giudiziale e Presupposti di Applicazione

Cos’è la liquidazione giudiziale? In breve, è la procedura concorsuale giudiziaria con cui si liquidano (vendono) i beni di un debitore imprenditore commerciale insolvente, sotto la supervisione di un tribunale e di un curatore nominato, al fine di soddisfare i creditori secondo le cause di prelazione previste dalla legge. È considerata una soluzione residuale, cui si ricorre quando falliscono o non sono praticabili strumenti di regolazione della crisi che puntino al risanamento o alla continuità aziendale. In pratica, la liquidazione giudiziale corrisponde al “fallimento” di una impresa, ma con una nuova denominazione e alcune modifiche procedurali, pur conservando le caratteristiche fondamentali del vecchio istituto.

Presupposti Soggettivi: Chi può essere dichiarato in liquidazione?

Le norme sulla liquidazione giudiziale si applicano solo a determinati debitori. In particolare, il presupposto soggettivo richiede che il debitore sia un imprenditore commerciale non piccolo. L’art. 121 del Codice della Crisi (C.C.I.I.) stabilisce infatti che rientrano nella procedura gli imprenditori che non dimostrino di essere “imprese minori” ai sensi dell’art. 2, co.1, lett. d) C.C.I.I.. Le “imprese minori” sono quelle che, nei tre esercizi antecedenti la domanda (o dall’inizio attività se più breve), non superano congiuntamente questi parametri:

  • Attivo patrimoniale annuo ≤ €300.000;
  • Ricavi lordi annui ≤ €200.000;
  • Debiti totali (anche non scaduti) ≤ €500.000.

Le imprese che rispettano tutti e tre i requisiti sopra sono considerate di dimensioni troppo piccole e sono escluse dalla liquidazione giudiziale. Analogamente non sono soggetti alla liquidazione (bensì ad altre procedure previste per il sovraindebitamento) gli imprenditori agricoli, i professionisti e i consumatori che non esercitano attività d’impresa. In altre parole, chi svolge esclusivamente attività agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c. non può essere dichiarato fallito/liquidato giudizialmente. La Cassazione ha confermato ad esempio che una società avente oggetto agricolo non è assoggettabile a fallimento (liquidazione) su istanza di creditori, anche se successivamente ha dismesso l’attività originaria senza però assumere natura commerciale prevalente.

Rientrano invece a pieno titolo nella procedura i piccoli imprenditori commerciali sopra soglia (es. ditte individuali o società di persone che superino anche solo uno dei parametri delle “imprese minori”) e tutte le società commerciali di medio-grandi dimensioni. Per gli imprenditori esclusi (consumatori, professionisti, enti non commerciali, imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli), la legge prevede le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (come la liquidazione controllata del sovraindebitato, i piani del consumatore, accordi di ristrutturazione minori, ecc.), che però esulano da questa trattazione.

Nota: Anche le start-up innovative godono di una temporanea esenzione: la legge esclude espressamente le start-up innovative iscritte nell’apposito registro dalla liquidazione giudiziale , nell’ottica di favorire l’assunzione di rischi imprenditoriali innovativi. Questa esenzione è comunque circoscritta (in genere limitata ai primi anni di vita della start-up) e soggetta alle condizioni previste dalla normativa speciale sulle start-up.

Presupposto Oggettivo: Lo Stato di Insolvenza

Oltre ad appartenere alla categoria di soggetti fallibili, il debitore deve trovarsi in uno stato di dissesto economico definito stato di insolvenza (presupposto oggettivo). L’art. 2, co.1, lett. b) C.C.I.I. definisce insolvente il debitore che non è più in grado di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, situazione desumibile da inadempimenti od altri fatti esteriori indicatori. In pratica, l’insolvenza si manifesta tipicamente con il mancato pagamento sistematico di debiti alla scadenza, protesti, pignoramenti infruttuosi, fuga o chiusura improvvisa dell’azienda, ecc. Deve trattarsi di una crisi irreversibile di liquidità o di patrimonio insufficiente, non di una difficoltà temporanea.

La legge inoltre richiede una soglia minima di esposizione debitoria: non si procede alla liquidazione giudiziale se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati è inferiore a €30.000. Questo limite di 30.000 euro serve a evitare procedure concorsuali per insolvenze di entità trascurabile. La soglia si riferisce al totale dei debiti scaduti impagati al momento della decisione: se complessivamente sotto 30mila, la domanda sarà rigettata per insufficienza di massa debitoria. Tale criterio era già applicato nella prassi (introdotto nel 2015 nel vecchio art. 15 L.F.) ed è ora esplicitamente previsto dal Codice della Crisi.

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Riassumendo, possono essere dichiarati in liquidazione giudiziale gli imprenditori commerciali (società o ditte individuali) che: a) sono insolventi; b) non rientrano tra i soggetti esclusi (imprese troppo piccole, agricole, professionali, enti pubblici, ecc.); c) hanno debiti scaduti ≥ €30.000. Anche un’impresa che ha cessato l’attività può essere dichiarata fallita entro 1 anno dalla cessazione, purché l’insolvenza si sia manifestata prima o entro tale termine. L’art. 33 C.C.I.I. (riprendendo l’art. 10 della vecchia legge fallimentare) prevede infatti che la liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cancellazione dell’impresa dal registro o dalla cessazione dell’attività. Ad esempio, la Cassazione ha ribadito nel 2024 che una società incorporata in fusione (dunque estinta come soggetto) può ancora fallire entro un anno dall’estinzione, a tutela dei creditori: l’effetto estintivo della fusione non impedisce la dichiarazione di liquidazione giudiziale entro l’anno, in base all’art. 33 C.C.I.I.. Ciò scoraggia strategie elusive come chiudere o fondere la società per sfuggire ai debiti: i creditori conservano la possibilità di far aprire la procedura entro i termini di legge.

Procedura Passo-Passo della Liquidazione Giudiziale

Passiamo ora a descrivere come si svolge concretamente la procedura di liquidazione giudiziale, dalla presentazione della domanda fino alla chiusura, evidenziando il ruolo dell’avvocato in ciascuna fase. La disciplina è in gran parte mutuata dalla precedente legge fallimentare, con alcuni aggiustamenti volti ad accelerare i tempi e coordinare meglio eventuali procedure concorrenti.

Iniziativa per l’Apertura: Ricorso ed Udienza Pre-fallimentare

La procedura si avvia con un ricorso depositato presso il tribunale competente. I soggetti legittimati a presentare l’istanza di apertura della liquidazione sono:

  • Il debitore stesso (cd. autofallimento);
  • Uno o più creditori (anche separatamente);
  • Il Pubblico Ministero (in casi previsti, ad es. insolvenza di società rilevata nel corso di un procedimento penale o segnalata da un giudice civile );
  • Gli organi o autorità di vigilanza che hanno funzioni di controllo sull’impresa (ad es. in caso di società sottoposte a controlli pubblici, autorità di settore, ecc.), facoltà innovativa introdotta dal nuovo Codice.

Il ricorso va presentato al Tribunale del luogo in cui il debitore ha il centro degli interessi principali (COMI), di regola la sede legale per le società o la residenza per l’imprenditore individuale . Se vi sono più domande pendenti per diverse procedure concorsuali (es. un creditore chiede la liquidazione e nel frattempo il debitore deposita un concordato preventivo), il tribunale le riunisce e dà priorità a quelle diverse dalla liquidazione, favorendo soluzioni di salvataggio . Importante: Una richiesta di liquidazione giudiziale pendente non preclude al debitore di avviare una composizione negoziata della crisi, né impedisce la proroga dei termini per presentare una proposta di concordato con riserva (concordato “in bianco”) . Queste recenti precisazioni normative (D.lgs. 136/2024) assicurano che l’istanza di fallimento non blocchi la ricerca di alternative concordatarie, purché perseguite tempestivamente.

Depositato il ricorso, il tribunale fissa con decreto la data dell’udienza in cui discutere la richiesta e convoca il debitore e l’eventuale ricorrente (creditore o PM). Il Codice prevede che tra la notifica del ricorso + decreto e l’udienza debbano intercorrere almeno 15 giorni, per garantire al debitore un adeguato tempo di preparare la difesa (termine abbreviabile solo in caso di urgenza). Entro tale udienza il debitore può depositare memorie difensive. Inoltre, per accelerare e acquisire informazioni rilevanti, la cancelleria del tribunale ha l’obbligo – subito dopo il deposito del ricorso di liquidazione (o di concordato preventivo) – di collegarsi alle banche dati pubbliche (Agenzia Entrate, INPS, Registro Imprese) per ottenere dati e documenti sul debitore. Ciò significa che all’udienza il giudice dispone già d’ufficio di elementi su bilanci, debiti fiscali e contributivi, ecc., senza doverli richiedere alle parti.

All’udienza (cd. pre-fallimentare), il tribunale sente il debitore e il ricorrente. È possibile che emergano soluzioni alternative: ad esempio il debitore potrebbe presentare un’istanza di concordato preventivo “in extremis” o proporre ai creditori un accordo stragiudiziale, chiedendo un rinvio. Il tribunale può anche delegare un giudice relatore per assumere informazioni e prove, soprattutto se occorre esaminare documenti complessi o sentire testimoni (ad esempio sulla natura dell’attività, in caso di contestazione dello status di imprenditore commerciale, come avviene talvolta per le società agricole).

Il debitore, assistito dal suo avvocato, può contestare l’esistenza dei presupposti (ad es. negando lo stato d’insolvenza, dimostrando di essere impresa minore, o eccependo che i debiti scaduti sono sotto soglia), oppure può aderire riconoscendo l’insolvenza (nel caso di ricorso del creditore) accelerando la decisione. Se il debitore non compare o non si oppone, il giudice valuta comunque la sussistenza dei requisiti in base agli atti. In ogni caso, al termine dell’istruttoria prefallimentare, il collegio giudicante può riservarsi di decidere (prendersi qualche giorno per la deliberazione) oppure decidere subito.

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Prima della decisione, è ammesso l’eventuale intervento di terzi creditori ulteriori: fino a che il giudice non si riserva la decisione, altri creditori legittimati possono intervenire nel procedimento, ad esempio per sostenere l’istanza. Il debitore dal canto suo può rinunciare alla domanda se l’aveva presentata lui stesso (autofallimento) o se ha trovato un accordo coi creditori richiedenti: l’art. 43 C.C.I.I. consente la rinuncia al ricorso, che estingue il procedimento, fermo restando che il giudice può porre a carico del rinunciante le spese fin lì maturate.

Sentenza Dichiarativa di Liquidazione e Organi della Procedura

Se il tribunale accerta che esistono tutti i presupposti (soggettivi e oggettivi) e non ci sono soluzioni alternative praticabili, emette la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale. Questa pronuncia segna l’avvio ufficiale della procedura concorsuale e contiene una serie di disposizioni fondamentali  :

  • Dichiara lo stato di insolvenza del debitore e l’apertura della liquidazione giudiziale (un tempo si parlava di “dichiarazione di fallimento”);
  • Nomina gli organi della procedura: in particolare nomina un Giudice Delegato (magistrato del tribunale che sovrintenderà agli atti) e nomina il Curatore fallimentare (professionista esterno incaricato di gestire l’attivo e il passivo). Nomina anche i componenti del Comitato dei Creditori (organo consultivo composto da 3 o 5 creditori, se necessario), oppure rimanda la loro nomina a quando sarà definito il quadro creditorio;
  • Fissa il termine (perentorio) entro cui i creditori devono presentare domanda di ammissione al passivo e la data dell’udienza di esame dello stato passivo ;
  • Ordina eventuali misure immediate (es. se non già avvenuto, il sequestro dei beni dell’impresa, l’apposizione dei sigilli, ecc.);
  • Dispone la comunicazione e pubblicazione della sentenza (notifica al debitore, comunicazione al Pubblico Registro dei Falliti o Registro Imprese, etc., ora verosimilmente effettuata via PEC e iscrizione nel registro imprese per le società).

La sentenza di liquidazione è immediatamente esecutiva. Contro di essa è ammesso reclamo in Corte d’Appello entro 30 giorni , sia da parte del debitore che di qualunque interessato (es. creditori, PM). Tuttavia il reclamo non sospende gli effetti salvo che la Corte disponga diversamente: quindi, di regola, la procedura va avanti anche se il debitore impugna la dichiarazione.

Organi coinvolti: Una volta aperta la procedura, il protagonista operativo diventa il Curatore. Questi è solitamente un professionista (dottore commercialista o avvocato) iscritto in apposito albo, scelto dal tribunale per condurre le operazioni. Il Curatore agisce sotto la supervisione del Giudice Delegato (G.D.), al quale deve chiedere autorizzazioni per gli atti più rilevanti e rendere conto periodicamente. I creditori possono partecipare attraverso il Comitato dei Creditori, organo consultivo e di controllo: il Curatore deve sottoporre al Comitato alcune decisioni (es. continuazione dell’esercizio di impresa, rinuncia ad acquisire beni, proposta di transazioni, ecc.), e il Comitato esprime pareri vincolanti in certi casi o comunque orientativi. In ogni caso le decisioni cruciali (cessione di beni, prosecuzione attività, riparti) vedono un ruolo di autorizzazione da parte del G.D. o del Tribunale. Ad esempio, ogni atto di liquidazione dell’attivo deve essere autorizzato dal G.D. e conforme al programma approvato.

Da notare che, nelle liquidazioni di società di persone, la sentenza dichiarativa estende il fallimento anche ai soci a responsabilità illimitata. Così, se viene dichiarata insolvente una SNC, automaticamente la procedura si apre anche per ogni socio illimitatamente responsabile , con nomina di curatele separate o congiunte a seconda dei casi. Questo è un aspetto delicato per gli imprenditori: la propria responsabilità personale in certe forme societarie li espone al fallimento personale insieme alla società.

Effetti immediati della sentenza (analizzati in dettaglio nella sezione successiva sugli effetti): in sintesi, l’apertura della liquidazione comporta per il debitore il spossessamento dei suoi beni (perde amministrazione e disponibilità del patrimonio) e per i creditori il divieto di azioni esecutive individuali, dovendo tutti concorrere nel processo collettivo . Inoltre, gli atti dispositivi compiuti dal debitore dopo la sentenza (o poco prima, in “periodo sospetto”) risultano inefficaci verso i creditori e possono essere revocati su istanza del curatore . Approfondiremo tali effetti a breve.

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Spossessamento e Poteri del Curatore

Con la dichiarazione di apertura si realizza lo spossessamento: l’imprenditore perde la gestione e la disponibilità di tutti i beni esistenti alla data della sentenza . Tale principio, sancito dall’art. 142 C.C.I.I., è volto a conservare il patrimonio a beneficio dei creditori, impedendo al debitore di compiere atti che possano sottrarre o disperdere beni . I beni che dovessero sopravvenire al debitore durante la procedura (eredità, vincite, redditi futuri, ecc.) in linea di massima entrano anch’essi nella massa attiva fallimentare. Qualunque atto dispositivocompiuto dal debitore dopo l’apertura della procedura è giuridicamente inefficace rispetto ai creditori : ad esempio, se l’imprenditore fallito vende un macchinario di nascosto, quella vendita non avrà effetto e il curatore potrà riprendersi il bene.

Eccezioni – beni esclusi: Non tutti i beni del debitore vengono espropriati. L’art. 146 C.C.I.I. elenca i beni e diritti di natura personale che restano in capo al debitore nonostante il fallimento . Si tratta di voci analoghe a quelle già previste dall’art. 46 legge fall.:

  • i beni strettamente personali (ad esempio abbigliamento, oggetti personali di uso quotidiano non di lusso);
  • i proventi a carattere alimentare e i redditi da lavoro che servono al mantenimento proprio e della famiglia (il giudice può fissare un importo mensile che il fallito può trattenere per vivere) ;
  • i frutti dell’eventuale usufrutto legale sui beni dei figli;
  • i beni costituiti in fondo patrimoniale (o trust simili, salvo revocatoria se usati per frodare) e i loro frutti;
  • qualunque bene dichiarato impignorabile per legge (es. alcune polizze vita, attrezzi indispensabili per mestiere se l’attività non prosegue, animali da compagnia, ecc.).

Il curatore quindi non può aggredire queste categorie, che rimangono nella disponibilità del debitore.

Appena nominato, il Curatore assume la gestione di tutto il patrimonio. I suoi primi compiti includono: prendere possesso dei beni dell’impresa (chiusura temporanea e riapertura locali, inventario dei beni mobili, custodia degli immobili), acquisire le scritture contabili e la documentazione aziendale, chiudere i conti bancari o vincolarli alla procedura, ecc. Entro 10 giorni dalla notifica della sentenza, il debitore fallito (o gli amministratori, se società) deve consegnare al curatore l’elenco dei creditori e debitori, le scritture contabili e fiscali e una situazione patrimoniale aggiornata (art. 198 C.C.I.I.).

Il curatore procede poi a formare l’inventario di tutti i beni, avvalendosi di notarili se necessario, e redige una relazione iniziale sulle cause del dissesto e sulle eventuali responsabilità del debitore, da depositare al giudice delegato entro 60 giorni (termine poi confermato con la relazione ex art. 130 C.C.I.I. di cui diremo oltre). Entro 150 giorni dalla sentenza (termine ridotto dal Correttivo 2024, prima era 180), il curatore deve predisporre un programma di liquidazione dettagliato. Questo programma, sottoposto all’approvazione del comitato creditori e al vaglio del giudice delegato, indica come si intende liquidare l’attivo: ad esempio vendita in blocco dell’azienda o rami d’azienda, oppure vendite dei singoli cespiti tramite asta, tempistiche, eventuale esercizio provvisorio, affitto d’azienda, ecc. Nel programma il curatore deve indicare anche i tempi stimati di inizio e completamento della liquidazione, che per legge non dovrebbero superare 5 anni dalla sentenza (estendibili al massimo a 7 anni nei casi di eccezionale complessità). Questa impostazione mira a evitare procedure fallimentari eterne: se in 5-7 anni non si riesce a liquidare tutto, il giudice valuterà la chiusura anche parziale.

Durante tutta la procedura, il curatore amministra il patrimonio in luogo del debitore. Egli può compiere gli atti di ordinaria amministrazione liberamente, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione (vendite, transazioni, riconoscimento di crediti, rinunce ad azioni, ecc.) ha bisogno di autorizzazione del giudice delegato. Ogni 4 mesi deve predisporre un progetto di riparto parziale se ha disponibilità liquide da distribuire, indicando chi pagare e in quale misura secondo le priorità di legge; lo comunica ai creditori, che hanno 15 giorni per eventuali reclami. Inoltre, il curatore ha obblighi informativi: entro 30 giorni dall’apertura invia al giudice delegato una relazione su possibili responsabilità del debitore (es. atti di frode, irregolarità gestionali); poi entro 4 mesi dalla chiusura dello stato passivo e ogni 6 mesi deve trasmettere a giudice e creditori un rapporto sull’andamento della procedura e le somme disponibili. Questi adempimenti garantiscono trasparenza e controllo sull’operato del curatore.

Un cenno meritano l’esercizio provvisorio e l’affitto d’azienda: se dall’interruzione immediata dell’attività deriverebbe un grave danno per i creditori (ad es. perirebbe l’avviamento o commesse importanti verrebbero perdute), il tribunale contestualmente alla sentenza (o il giudice delegato successivamente su proposta del curatore) può autorizzare la continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa fallita, in tutto o in parte. L’esercizio provvisorio è ammesso solo se non reca pregiudizio ai creditori e viene supervisionato strettamente; può essere interrotto in ogni momento con decreto se emergono inconvenienti. In alternativa, per preservare l’organizzazione aziendale, il giudice può autorizzare il concordato affitto di azienda (o di rami), anche prima che il programma di liquidazione sia pronto. In tal modo un altro soggetto gestisce temporaneamente l’azienda pagando un canone, in attesa della vendita definitiva: soluzione utile per mantenere in vita l’attività e i posti di lavoro sino alla cessione. Il curatore valuta caso per caso, col parere del comitato, se convenga proseguire l’attività (direttamente o via affitto) oppure cessarla immediatamente. In ogni caso, dopo 6 tentativi di vendita andati deserti, la legge presume non conveniente proseguire con ulteriori aste e consente al curatore, con autorizzazione del comitato, di non acquisire o abbandonare beni invendibili (salvo diversa direttiva del giudice delegato in presenza di giustificati motivi). Ciò evita di prolungare sine die la procedura per realizzi irrisori.

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Accertamento del Passivo: Insinuazione dei Crediti e Stato Passivo

Parallelamente alla gestione dell’attivo, si svolge la fase di accertamento del passivo, ossia la verifica dei crediti vantati verso il fallito. Solo i creditori i cui crediti vengono ammessi allo stato passivo partecipano poi alla distribuzione dell’attivo, secondo il principio che la verifica concorsuale concentra tutte le pretese in un unico procedimento.

Dopo la sentenza dichiarativa, il tribunale comunica ai creditori (per quanto noti) l’apertura della procedura e la data dell’udienza di verifica. Questa comunicazione oggi avviene in via telematica e attraverso il portale della procedura concorsuale. Ciascun creditore deve presentare una domanda di insinuazione al passivo, indirizzata al curatore, con l’assistenza facoltativa di un avvocato (non è obbligatorio il ministero di difensore: il creditore può anche fare domanda da sé). La domanda va trasmessa di norma almeno 30 giorni prima dell’udienza di esame: entro tale termine le domande si considerano tempestive. Nella domanda il creditore indica l’importo del credito, gli eventuali interessi, la causa (es. forniture non pagate, finanziamento, danno, tributo, stipendio…), e l’eventuale titolo di prelazione (garanzia reale come pegno/ipoteca, privilegio generale o speciale previsto dalla legge). Deve allegare i documenti comprovanti (fatture, contratto, decreto ingiuntivo, ecc.). Anche chi vanta diritti reali su beni del debitore (es. diritto di proprietà su un bene in possesso del fallito, leasing, ecc.) deve insinuarsi per far valere tali diritti.

Il curatore esamina tutte le domande pervenute e predispone un progetto di stato passivo, ammettendo, escludendo o contestando i crediti. In sede di udienza, il Giudice Delegato, sulla base del progetto del curatore e sentiti eventualmente i creditori presenti o i loro avvocati, decide su ogni domanda emettendo un decreto che rende esecutivo lo stato passivo. I crediti possono essere ammessi (in tutto o in parte, e con un certo grado di privilegio o in chirografo) oppure esclusi (rigettati). Il decreto di esecutività equivale a una sentenza di primo grado: il creditore escluso (o ammesso con importo inferiore o grado inferiore) può proporre opposizione allo stato passivo entro 30 giorni, da intentare davanti al Tribunale in composizione collegiale. Le decisioni sulle opposizioni potranno poi essere appellate e ricorse in Cassazione, ma nel frattempo lo stato passivo parzialmente esecutivo consente di procedere con i riparti ai creditori ammessi.

La legge prevede possibilità di insinuazione tardiva per i creditori che, per vari motivi, non si sono attivati entro il termine iniziale. In particolare, le domande tardive possono essere presentate (con contributo unificato maggiorato) entro 6 mesi dalla data di esecutività dello stato passivo (termine ridotto dai 12 mesi del vecchio ordinamento). Oltre tale termine, sono ammesse solo domande ultratardive giustificate: il creditore deve provare che il ritardo è dovuto a causa a lui non imputabile (es. era ignaro del fallimento per omissione delle comunicazioni, oppure il suo credito è sorto dopo). In ogni caso l’ultratardiva va proposta al massimo entro 60 giorni da quando è cessato l’impedimento. Il giudice delegato può anche dichiarare inammissibile un’ultratardiva manifestamente priva di giustificazioni.

Chi si insinua in ritardo subisce conseguenze: il creditore chirografario (senza privilegio) che presenta domanda dopo i termini perde il diritto di ottenere la quota che gli sarebbe spettata nei riparti già eseguiti. In sostanza, non potrà pretendere integrazioni su eventuali distribuzioni precedenti alla sua ammissione – a tutela di chi ha ricevuto quei riparti. Il creditore privilegiato invece conserva il diritto di recuperare anche sulle somme già distribuite (nei limiti del suo privilegio), perché essendo garantito aveva comunque priorità. Quindi la punizione per il ritardatario incide solo sui chirografari.

È possibile, se il fallito è completamente privo di beni liquidi, che non ci sia attivo da distribuire: in tal caso la legge consente di evitare un’inutile verifica del passivo. L’art. 209 C.C.I.I. prevede che il curatore possa chiedere al giudice delegato di non far luogo all’accertamento del passivo e contestualmente il tribunale dichiara chiusa la procedura per mancanza di attivo (art. 234 C.C.I.I.). Ciò avviene in fallimenti cosiddetti “deserti” in cui il patrimonio non copre neppure i costi. In tali casi, il debitore persona fisica potrà eventualmente accedere all’esdebitazione immediata di diritto (lo vedremo più avanti).

Un ultimo aspetto è la compensazione tra crediti e debiti reciproci: la regola generale è che, se un creditore del fallito è a sua volta debitore verso il fallito, può opporre in compensazione il proprio debito, evitando di dover pagare per intero e poi ricevere forse un dividendo parziale. La compensazione nel fallimento è ammessa con alcune eccezioni a tutela della massa. Il Codice (art. 155) conferma tale facoltà in deroga al principio della par condicio per equità – evitando che un creditore sia costretto a pagare interamente il dovuto al fallito e poi incassare magari una piccola percentuale sul suo credito. Tuttavia è vietata la compensazione per i crediti che il creditore ha acquistato da altri dopo il deposito della domanda di liquidazione o nell’anno anteriore. Ciò per evitare manovre speculative (“compensazione triangolare”): ad esempio, un soggetto debitore del fallito non può comprarsi a sconto un credito verso il fallito per poi opporlo in compensazione al 100% col proprio debito – se l’acquisto è avvenuto poco prima o dopo l’apertura. Questa regola scoraggia l’acquisto di crediti a fini di compensazione opportunistica.

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Liquidazione dell’Attivo e Distribuzione ai Creditori

Una volta verificati i crediti e formato lo stato passivo, il curatore – in base al programma approvato – procede alla realizzazione dell’attivo, cioè alla vendita dei beni e al recupero dei crediti. Tutte le operazioni di liquidazione avvengono sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, a garanzia della correttezza.

La normativa attuale privilegia modalità di vendita competitive e telematiche: l’art. 216 C.C.I.I. impone che la vendita dei beni avvenga tramite procedure di gara, preferibilmente utilizzando il Portale delle Vendite Pubbliche (la piattaforma online ministeriale già utilizzata per le aste giudiziarie). Questo garantisce trasparenza e massima partecipazione di offerenti, salvo che l’uso di tali strumenti risulti controproducente per gli interessi dei creditori (in casi eccezionali, il giudice può autorizzare vendite diverse). In generale, però, immobili, beni mobili di valore e altri attivi vengono liquidati tramite aste telematiche, con pubblicazione degli avvisi sul portale e possibilità di offerte online.

Il G.D. stabilisce per ciascun bene o lotto le modalità specifiche (vendita con incanto o senza, prezzo base o libero, ecc.). Può anche ordinare la liberazione di immobili occupati dal debitore (tranne la sua abitazione principale) o da terzi senza titolo opponibile, per venderli liberi. Durante la liquidazione, il curatore può intraprendere o proseguire azioni legali volte a recuperare crediti verso terzi (es. cause contro debitori della società fallita, escutere fideiussioni, ecc.). Può anche esercitare le azioni di responsabilità contro gli amministratori (ne parliamo nella sezione dedicata agli atti pregiudizievoli) e promuovere azioni revocatorie per far dichiarare inefficaci atti compiuti dal debitore prima del fallimento che siano lesivi per i creditori.

Man mano che realizza cassa vendendo beni o incassando crediti, il curatore effettua delle distribuzioni ai creditori ammessi. Segue l’ordine stabilito dalla legge (art. 221 C.C.I.I., che ricalca l’art. 111 L.F.): prima si pagano le spese della procedura (compenso del curatore, costi di giustizia, ecc., crediti prededucibili), poi i creditori con privilegi speciali sui singoli beni venduti (es. la banca ipotecaria sul ricavato dell’immobile ipotecato) e privilegi generali sul patrimonio (es. dipendenti, fisco, fino ai limiti di privilegio), poi i chirografari (senza garanzie) in proporzione percentuale, ed infine eventuali creditori postergati (soci finanziatori, etc.). Se l’attivo non basta a soddisfare per intero una classe, questi vengono pagati proporzionalmente (il famoso “% di realizzo” del fallimento). I creditori con pegno o ipoteca partecipano solo per l’eventuale parte non coperta dal ricavato del bene vincolato.

Periodicamente, il curatore presenta un piano di riparto ai creditori indicando quanto intende distribuire a ciascuno. Il piano è comunicato e, se non ci sono reclami al giudice entro 15 giorni, viene eseguito pagando le somme. Si possono fare più riparti parziali (ad esempio dopo aver venduto i beni principali) e un riparto finale a conclusione. Nel predisporre i riparti, se qualche credito è sub iudice (ad es. ammesso con riserva o oggetto di opposizione ancora pendente), il curatore accantona la quota corrispondente in attesa dell’esito, per poi attribuirla secondo necessità.

Quando tutti i beni risultano liquidati e ripartiti, si perviene alla chiusura della procedura. L’art. 233 C.C.I.I. elenca i casi di chiusura, riprendendo l’art. 118 L.F.: le cause tipiche sono esaurimento dell’attivo con riparto finale, oppure insufficienza dell’attivo (come visto, mancanza assoluta di attivo, dichiarata ex art. 234/209), oppure concordato fallimentare omologato, oppure integrale pagamento dei creditori. In quest’ultimo caso (raro, ma possibile se interviene un terzo a pagare tutto o emergono attivi insperati), o anche nel caso di chiusura per mancanza di creditori insinuati, se il fallito era una società di capitali, la chiusura comporta il ritorno “in bonis” della società stessa. Ciò significa che la società riacquista la capacità di stare in commercio: il curatore convoca l’assemblea dei soci per decidere se riprendere l’attività o sciogliere e liquidare la società in via ordinaria. Questa novità evita che società solventi (perché o senza debiti accertati o con debiti pagati) restino in un limbo giuridico: tornano operative previa decisione dei soci.

Dopo la chiusura, il curatore rende il conto finale della gestione e, ottenuto il decreto di approvazione, cessa il proprio incarico. Per il debitore persona fisica, dalla chiusura decorre la possibilità di ottenere l’esdebitazione, ossia la liberazione dai debiti residui non soddisfatti nel fallimento (vedi sezione dedicata più avanti). La chiusura, inoltre, fa venir meno le incapacità personali derivanti dal fallimento (es. poter tornare a ricoprire cariche societarie) , salvo che intervengano condanne penali accessorie.

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Va evidenziato che durante la procedura di liquidazione giudiziale può presentarsi la possibilità di una chiusura anticipata concordataria: il Codice prevede infatti il concordato nella liquidazione (un tempo chiamato concordato fallimentare). Vediamolo brevemente.

Proposta di Concordato nella Liquidazione Giudiziale

Anche dopo l’apertura della liquidazione, non è del tutto precluso trovare un accordo con i creditori. L’art. 240 C.C.I.I. e seguenti disciplinano la proposta di concordato nell’ambito di una procedura di liquidazione giudiziale già in corso. Si tratta di offrire ai creditori un certo trattamento (es. pagamento percentuale, oppure attribuzione di beni) alternativo alla prosecuzione della liquidazione, in cambio dell’estinzione della procedura. Questo concordato post liquidazione può essere proposto da:

  • Un terzo estraneo (ad es. un investitore interessato a rilevare l’azienda, o un familiare del debitore disposto a saldare parte dei debiti);
  • Uno o più creditori stessi che formulino un piano;
  • Il debitore fallito, però non prima di un anno dall’apertura e non oltre due anni dall’esecutività dello stato passivo, e a condizione che apporti risorse esterne tali da aumentare l’attivo di almeno il 10%. Questa limitazione evita proposte opportunistiche del fallito senza nuovi fondi: deve mettere soldi freschi pari ad almeno il 10% in più dell’attivo già disponibile, segno di serietà.

La proposta concordataria nel fallimento ha caratteristiche simili a un concordato preventivo: chi propone si impegna a soddisfare i creditori in misura non inferiore a quanto otterrebbero proseguendo la liquidazione. Può prevedere anche il pagamento parziale di creditori privilegiati (cram-down sui privilegi), purché ricevano almeno l’equivalente di realizzo dei beni su cui vantano prelazione. Può altresì limitarsi ai soli creditori già ammessi al passivo (escludendo eventuali tardivi futuri).

La proposta va depositata in tribunale; il giudice la comunica ai creditori, sente il parere del curatore e del comitato dei creditori e indice una votazione scritta o in adunanza. Per l’approvazione serve la maggioranza dei crediti ammessi al voto (calcolata come somma di crediti favorevoli > 50% del totale). Possono essere previste classi di creditori e in tal caso serve la maggioranza in ogni classe o il cram-down interclassi. Una novità è che il silenzio vale assenso: i creditori devono far pervenire un eventuale voto negativo entro il termine fissato (20-30 giorni) altrimenti il loro silenzio è conteggiato come voto favorevole. Ciò facilita il raggiungimento del quorum, evitando che l’inerzia ostacoli l’accordo.

Se i creditori approvano, il tribunale verifica legalità e fattibilità e omologa il concordato. Con l’omologa definitiva, il concordato diviene vincolante per tutti i creditori concorsuali e la procedura di liquidazione viene dichiarata chiusa. Da quel momento, il debitore (o il terzo proponente) eseguirà il concordato secondo i patti (pagamenti ecc.), sotto eventuale sorveglianza di un liquidatore nominato ad hoc. In caso di inadempimento grave, il concordato potrà essere risolto o annullato, e allora la procedura di liquidazione può essere riaperta (entro 1 anno dall’omologa, su istanza di qualunque interessato).

Il Decreto Correttivo-ter del 2024 ha introdotto due migliorie: (i) la possibilità del cram-down fiscale anche nel concordato fallimentare, ossia il tribunale può omologare il concordato nonostante il voto contrario determinante dell’Erario o di enti previdenziali, se ritiene la proposta più vantaggiosa per loro rispetto alla liquidazione (previo parere di un professionista indipendente); (ii) ha esteso la disciplina del concordato anche alle procedure di liquidazione di gruppo (unica procedura per più società del medesimo gruppo), prevedendo che possa proporsi un concordato unitario o concordati coordinati per il gruppo.

Chiusura, Esdebitazione e Riapertura

Come già accennato, la procedura si chiude di regola dopo il riparto finale, oppure anticipatamente se un concordato viene omologato, o per insufficienza assoluta di attivo. La chiusura viene dichiarata dal tribunale con decreto, su istanza del curatore o d’ufficio. Da quel momento, il debitore riacquista la disponibilità degli eventuali beni residui non liquidati (se ce ne sono) e termina lo stato di spossessamento. Le incapacità personali legate al fallimento cessano anch’esse, a meno che il debitore non sia interdetto per altre ragioni (ad es. condanna penale). Infatti l’art. 236 C.C.I.I. stabilisce che con la chiusura decadono le incapacità a ricoprire cariche societarie, funzioni di tutore, etc. .

Una volta chiuso il fallimento, l’imprenditore individuale o il socio illimitatamente responsabile (persona fisica) ha diritto all’esdebitazione – un istituto introdotto già nel 2006 e confermato dal Codice – che consiste nella liberazione dai debiti residui rimasti insoddisfatti nella procedura. In pratica, se il fallito ha collaborato lealmente e non ha subìto condanne per bancarotta fraudolenta, può ripartire “pulito” dai vecchi debiti. L’esdebitazione può essere concessa su ricorso dell’interessato dopo la chiusura oppure d’ufficio di diritto (nel Codice ci sono previsioni di esdebitazione di diritto per il debitore persona fisica meritevole, art. 278 C.C.I.I.). Questo istituto è fondamentale per offrire al piccolo imprenditore onesto ma sfortunato una fresh start, ossia la possibilità di tornare in attività senza l’handicap di debiti inesigibili.

Per le società, invece, l’esdebitazione non serve: la società una volta liquidata e chiusa viene estinta e i debiti insoddisfatti restano inesigibili (salvo garanzie personali di soci o amministratori). La riapertura del fallimento può avvenire solo se, entro 1 anno dalla chiusura, emergono attività non conosciute prima (art. 237 C.C.I.I.) o come detto se fallisce un concordato (entro 1 anno dall’omologa). La riapertura è disposta dal tribunale su istanza di creditori o dello stesso debitore se affiorano nuovi beni da distribuire.

Con questo si completa il ciclo di vita della liquidazione giudiziale. È evidente che l’intero percorso è denso di adempimenti legali e passaggi critici, dove il ruolo dell’avvocato che assiste l’imprenditore (sia esso debitore o eventualmente un creditore coinvolto) è centrale. Nella prossima sezione approfondiamo proprio i compiti, le responsabilità e l’importanza dell’avvocato in queste fasi.

Ruolo e Responsabilità dell’Imprenditore nella Procedura

La posizione dell’imprenditore insolvente durante la liquidazione giudiziale è delicata: da un lato subisce spossessamento e limitazioni, dall’altro conserva doveri di cooperazione e può andare incontro a responsabilità civili e penali per atti compiuti prima o durante la procedura. È cruciale comprendere cosa ci si aspetta dall’imprenditore e quali comportamenti possono aggravare la sua posizione.

Obblighi di Veridicità e Conservazione delle Scritture

Già prima dell’apertura della procedura, l’imprenditore ha l’obbligo (previsto dal codice civile) di tenere le scritture contabili in modo regolare e conservare la documentazione aziendale. In caso di dissesto, questi doveri assumono rilievo penale: presentarsi al fallimento con i libri in ordine e i bilanci trasparenti è fondamentale. La mancanza o irregolarità delle scritture può integrare il reato di bancarotta semplice documentale o fraudolenta se vi è dolo (artt. 322-323 C.C.I.I.). Dunque, prima ancora che la crisi esploda, l’imprenditore diligente deve evitare di aggravare la situazione occultando informazioni o distruggendo registri. Mantenere una condotta corretta nella fase di crisi (non dissipare beni, non favorire indebitamente alcuni creditori a scapito di altri, ecc.) è essenziale sia per non compromettere eventuali soluzioni di risanamento sia per evitare incriminazioni.

Doveri di Cooperazione nella Procedura

Una volta dichiarata l’apertura della liquidazione, l’imprenditore (o i legali rappresentanti, se società) ha precisi doveri di cooperazione col curatore e con gli organi della procedura. In particolare deve: consegnare immediatamente tutta la documentazione contabile e fiscale; fornire l’elenco di creditori e debitori; mettere a disposizione i beni; fornire ogni informazione richiesta dal curatore relativa alla gestione e alle cause dell’insolvenza. Inoltre l’imprenditore fallito deve essere presente personalmente (se persona fisica) o tramite i rappresentanti (se società) agli atti salienti: ad esempio, può essere convocato per l’interrogatorio formale da parte del Giudice Delegato e del curatore, in cui gli vengono chiesti chiarimenti sulla sua attività, sui motivi del dissesto e sull’eventuale esistenza di altri beni non noti. Questo interrogatorio (ex art. 136 C.C.I.I.) è un momento cruciale: il debitore è tenuto a rispondere con sincerità, consapevole che false dichiarazioni possono portare a sanzioni.

L’imprenditore fallito ha anche l’obbligo di consegnare al curatore tutta la corrispondenza a lui indirizzata attinente rapporti patrimoniali . Ciò significa che, se dovesse ricevere lettere, comunicazioni bancarie, notifiche di atti riguardanti il patrimonio concorsuale, deve girarle immediatamente al curatore. Questa disposizione evita che il debitore tenga nascoste notizie utili (come ad esempio comunicazioni su crediti risarcitori, ecc.). Durante la procedura, il debitore non può stare in giudizio autonomamente per questioni relative ai beni fallimentari: la sua capacità processuale su quei rapporti è sostituita dal curatore . In altri termini, se era in corso una causa in cui il fallito era parte per un credito o un debito, da quel momento al suo posto subentra il curatore (interrompendo e riassumendo il giudizio). L’imprenditore potrà invece agire o resistere in giudizio in proprio solo per questioni estranee alla massa fallimentare (es: cause per danni morali, cause di divorzio, ecc.).

È interesse dell’imprenditore cooperare lealmente: il Codice premia la cooperazione anche ai fini dell’esdebitazione (la liberazione dai debiti è preclusa a chi non ha collaborato o ha ritardato la procedura dolosamente). Viceversa, un comportamento ostruzionistico può portare a provvedimenti coercitivi (ad es. accompagnamento coattivo per l’interrogatorio) e soprattutto pregiudicare la posizione in sede penale.

Conseguenze Personali e Civili per l’Imprenditore “Fallito”

La dichiarazione di liquidazione giudiziale comporta alcune incapacità personali e civili per l’imprenditore, che è bene conoscere. Queste misure, ereditate dalla vecchia legge fallimentare, mirano a evitare che il soggetto in stato di dissesto amministri altri patrimoni o incarichi delicati durante la procedura, a tutela di terzi. In particolare, la legge prevede che il fallito non possa ricoprire i seguenti uffici :

  • Tutore o curatore di minori o incapaci (art. 350 n.5 c.c. e art. 393 c.c.) ;
  • Amministratore di società per azioni (art. 2382 c.c., l’interdizione riguarda tutte le società di capitali) ;
  • Sindaco/revisore di società (art. 2399 c.c.) ;
  • Rappresentante comune degli obbligazionisti (art. 2417 c.c.) ;
  • Socio di società di persone (è controverso: l’art. 2288 c.c. prevede l’esclusione del socio fallito, analogamente per l’accomandatario di s.a.s. art. 2315 c.c.) .

Queste incapacità cessano con la chiusura della procedura . Inoltre, finché dura la procedura, il nome del fallito persona fisica è iscritto nel Registro dei fallimenti tenuto presso i tribunali (oggi in forma informatica), e per le società lo stato di liquidazione concorsuale è indicato nella visura camerale. Ciò costituisce un’inevitabile lesione reputazionale e incide sulla fiducia commerciale e creditizia del soggetto. Tuttavia, a differenza del passato, non esiste più il pubblico registro dei falliti (abolito da tempo) né la perdita di diritti civili come il diritto di voto – retaggi storici eliminati per ridurre lo stigma del fallimento. Resta comunque difficile, per un imprenditore fallito, ottenere credito durante e subito dopo la procedura, sebbene l’esdebitazione serva proprio a consentire un nuovo inizio senza debiti pregressi.

Un’altra conseguenza civile rilevante riguarda i soci di società di persone: se falliscono insieme alla società, la loro dichiarazione di fallimento produce effetti sul patrimonio personale (sono spossessati dei beni personali). Inoltre, tali soci illimitatamente responsabili restano incapaci di contrarre nuove obbligazioni per la società durante la procedura, pena la nullità.

Responsabilità per Atti Pregiudizievoli ai Creditori

L’imprenditore può incorrere in responsabilità civili per atti compiuti prima del fallimento che abbiano leso il patrimonio sociale o i diritti dei creditori. In ambito societario, i casi tipici sono le azioni di responsabilità contro gli amministratori o i soci per mala gestio. Nel fallimento, il curatore è legittimato ex art. 255 C.C.I.I. (già art. 146 L.F.) a promuovere le azioni di responsabilità sia quelle sociali (verso amministratori, sindaci, direttori generali per violazioni dei doveri ex artt. 2392 e 2393 c.c.), sia quelle dei creditori sociali (ex art. 2394 c.c. per insufficienza patrimoniale). Il curatore può cumulare queste azioni chiedendo il risarcimento del danno causato dagli amministratori negligenti o infedeli. Ad esempio, se prima del fallimento gli amministratori hanno dissipato attivo, falsificato bilanci, o aggravato il dissesto, il curatore potrà citarli in giudizio per danni.

La Cassazione ha chiarito nel 2024 che, in caso di distrazione di risorse dall’attivo societario, spetta agli amministratori dimostrare di averle impiegate correttamente nell’attività sociale e non aver violato i loro doveri, una volta che il curatore abbia allegato l’ingiustificata fuoriuscita di liquidità. Questo orientamento (Cass. civ. sez I n. 11324/2024) facilita la prova a carico del curatore: basta che egli evidenzi ammanchi non spiegati e il conseguente danno, e saranno gli ex amministratori a dover provare di non aver colpe (inversione dell’onere della prova in linea con la natura contrattuale della loro responsabilità). Altre pronunce (es. Cass. 14243/2024) confermano che l’azione del curatore può cumulare le responsabilità verso società e creditori e che l’eventuale transazione fatta dai nuovi amministratori in concordato preventivo non preclude l’azione in fallimento se quell’accordo non ha soddisfatto i creditori (tema tecnico: cumulabilità di azione ex art. 2394 e 2476 c.c.). In sostanza, gli amministratori e gli altri organi sociali possono essere chiamati a rispondere in proprio con il loro patrimonio dei danni recati alla società fallita. Questo è un importante strumento di giustizia: se la “colpa” del fallimento è dovuta a mala gestione, i creditori possono trovare parziale ristoro aggredendo i responsabili.

Anche l’imprenditore individuale può essere responsabile civilmente verso i creditori se ha compiuto atti di frode (ad es. ha sottratto beni alla garanzia). Il curatore potrebbe agire con revocatorie e se del caso con un’azione risarcitoria per abuso di diritto o illecito aquiliano per frode ai creditori (quest’ultimo raramente esperito, ma teoricamente possibile ex art. 2043 c.c. in casi estremi).

Oltre alle responsabilità verso la massa, l’imprenditore può avere debiti personali verso singoli creditori (ad es. esposizioni bancarie garantite da fideiussioni personali dei soci, debiti per danni extracontrattuali, ecc.) che saranno anch’essi soggetti alla verifica del passivo come crediti chirografari o postergati. Se tali debiti derivano da condotte illecite (frode fiscale, inadempimenti contributivi dolosi), pur essendo concorsuali, potrebbero attrarre sanzioni o implicazioni penali.

Profili Penali: Bancarotta e Altri Reati

Il fallimento porta con sé possibili responsabilità penali per l’imprenditore e gli amministratori, note come reati di bancarotta. Il Codice della Crisi ha riunito nel Titolo VIII una serie di reati concorsuali, tra cui la bancarotta fraudolenta (art. 322 C.C.I.I.) e la bancarotta semplice (art. 324 C.C.I.I.). Tali norme ricalcano in gran parte gli artt. 216 e 217 della vecchia legge fallimentare, con alcuni adeguamenti. Vediamo sinteticamente:

  • Bancarotta fraudolenta (art. 322): punisce con la reclusione da 3 a 10 anni l’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale che occulta, distrugge o distrae beni di sua spettanza allo scopo di frodare i creditori, oppure che simula passività inesistenti, o che falsifica, altera o sottrae le scritture contabili per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o recare pregiudizio ai creditori . È il reato più grave, la bancarotta fraudolenta patrimoniale (distrazione di beni) e documentale (falsificazione di libri). Rientra qui anche la bancarotta preferenziale, ossia aver pagato intenzionalmente un creditore a scapito di altri in prossimità del fallimento: è considerata una forma di frode ai creditori. Possono essere puniti per bancarotta fraudolenta anche amministratori, direttori, liquidatori di società fallita (artt. 322 e 329 C.C.I.I.). La bancarotta fraudolenta è un delitto che comporta pene detentive significative, ed è procedibile d’ufficio (basta la dichiarazione di fallimento per far scattare le indagini, su comunicazione obbligatoria del tribunale al PM ).
  • Bancarotta semplice (art. 324): punisce con la reclusione da 6 mesi a 2 anni l’imprenditore (o amministratore) che, senza dolo di frode, abbia però tenuto comportamenti gravemente imprudenti o negligenti che hanno contribuito al dissesto. L’art. 324 elenca cinque ipotesi tipiche  : (a) aver sostenuto spese personali eccessive rispetto alla propria situazione; (b) aver consumato una parte notevole del patrimonio in operazioni azzardate o manifestamente imprudenti; (c) aver compiuto operazioni gravemente imprudenti per ritardare l’apertura della liquidazione (es. vendite sottocosto pur di fare cassa e tirare avanti, indebitamenti a tassi usurai per procrastinare il fallimento); (d) aver aggravato il dissesto omettendo di presentare tempestivamente la propria istanza di fallimento o per altra grave colpa; (e) non aver soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare . Queste situazioni delineano la “colpa grave” del fallito. Un esempio classico: l’imprenditore che, già insolvente, continua a dilapidare soldi in spese di lusso personali – integrerebbe le fattispecie a) e d). La bancarotta semplice è un reato più lieve (punito come delitto minore), spesso contestato in caso di insolvenze dovute a mala gestio senza dolo specifico di frode.
  • Oltre alle bancarotte, il Codice prevede altri reati collegati: il ricorso abusivo al credito (art. 325), punito con reclusione 6 mesi – 3 anni, che consiste nel occultare il proprio dissesto continuando a fare credito, aggravando così la situazione . In pratica, se un imprenditore già insolvente continua a prendere beni o finanziamenti a credito nascondendo il suo stato, commette questo reato, distinto dalla bancarotta (che scatterà se fallisce comunque più avanti).
  • Ci sono poi le false comunicazioni ai creditori o al curatore, e i reati degli organi (ad es. omessa dichiarazione di beni da parte del fallito). Va segnalato che il Codice della Crisi ha anche introdotto reati a carico degli attestatori infedeli (professionisti che attestano piani falsi) e sanzioni per atti contrari alle procedure di allerta, ma queste riguardano più la fase pre-fallimentare.

Tutti questi reati vengono perseguiti dalla magistratura penale a seguito della segnalazione del fallimento. La legge impone infatti al tribunale fallimentare di comunicare immediatamente la sentenza di apertura al PM presso la Procura , per le valutazioni penali. Nella prassi, il curatore fornisce al PM la relazione con eventuali ipotesi di reato (entro 30 giorni, come visto). Se emergono elementi di bancarotta, si aprirà un procedimento penale a carico degli amministratori o del fallito, parallelo alla procedura concorsuale. L’imprenditore deve essere consapevole di questo rischio: molte condotte fatte magari con leggerezza (es. pagare un fornitore amico prima del fallimento, o vendere sottocosto merce a un parente) possono essere riviste in ottica penale come atti di frode.

Responsabilità penali di altri soggetti: Va ricordato che i reati fallimentari possono coinvolgere non solo l’imprenditore fallito, ma anche amministratori di fatto, soci occulti, o terzi complici (es. il prestanome compiacente che “compra” beni sottratti). Anche i professionisti possono rispondere, ad esempio l’attestatore che ha avallato bilanci falsi o il consulente che aiuta a distrarre beni (concorso in bancarotta). Ad esempio, se un imprenditore trasferisce dei beni all’estero poco prima del fallimento su consiglio di un consulente, entrambi potrebbero essere accusati di bancarotta fraudolenta in concorso.

L’imprenditore, perciò, con l’ausilio del suo avvocato, deve cercare di prevenire condotte a rischio e, una volta in procedura, collaborare per ridurre le possibili contestazioni. Se vengono avviati procedimenti penali, sarà fondamentale avere una difesa tecnica competente, magari mostrando che non c’era intenzione di frodare ma solo errori gestionali.

In sintesi, la liquidazione giudiziale impone all’imprenditore obblighi di trasparenza e correttezza, pena sanzioni severe. In cambio, offre l’opportunità (se l’imprenditore agisce in buona fede) di liberarsi dei debiti residui e di ripartire dopo la chiusura. Nel prossimo capitolo esaminiamo come l’avvocato affianca l’imprenditore in tutte queste vicende: dalla preparazione e fase prefallimentare, alla difesa nell’istruttoria, fino al supporto durante la procedura e oltre.

Il Ruolo dell’Avvocato: Dalla Crisi alla Chiusura della Procedura

Affrontare una liquidazione giudiziale senza assistenza legale sarebbe impensabile per un imprenditore, data la complessità delle norme e la posta in gioco (patrimonio, attività, responsabilità personali). L’avvocato svolge un ruolo chiave nel consigliare, rappresentare e tutelare l’imprenditore in ogni fase:

  • Fase pre-procedurale (gestione della crisi): quando l’impresa inizia a mostrare segnali di crisi o insolvenza imminente, l’avvocato può aiutare a valutare le opzioni disponibili. Ad esempio, potrà analizzare insieme all’imprenditore la situazione debitoria e suggerire eventuali strumenti alternativi al fallimento: un piano di risanamento, un accordo con i creditori, l’accesso a una composizione negoziata assistita, o la presentazione di un concordato preventivo. In questa fase, il legale collabora spesso con il commercialista o altri consulenti d’impresa per cercare soluzioni di continuità aziendale. Inoltre l’avvocato predispone l’impresa a minimizzare i rischi penali: consiglia di non compiere atti potenzialmente revocabili (pagamenti preferenziali, svendite di beni a parti correlate), di sistemare le scritture contabili, e di documentare tutte le decisioni prese, così da poterle giustificare. Se la situazione è irrecuperabile, l’avvocato può orientare l’imprenditore verso la scelta dell’autofallimento (depositare personalmente il ricorso di liquidazione), che talvolta è preferibile perché evita iniziative aggressive dei creditori e può segnalare un atteggiamento collaborativo (apprezzato anche in sede penale per dimostrare buona fede).
  • Preparazione del ricorso: sia che l’imprenditore decida di chiedere egli stesso la propria liquidazione (autofallimento), sia che voglia presentare un concordato preventivo “in bianco”, l’avvocato redige materialmente il ricorso e raccoglie i documenti necessari (bilanci, elenco creditori, attestazioni). Un ricorso ben fatto facilita una dichiarazione di fallimento più rapida e ordinata, e consente all’imprenditore di esporre chiaramente la propria situazione (ad esempio per far emergere subito la meritevolezza ed evitare accuse di reticenza). Nel caso di ricorso presentato da creditori, l’avvocato dell’imprenditore prepara invece la difesa: esamina la legittimità del credito istante (c’era realmente insolvenza? Il credito è certo, liquido ed esigibile? Il creditore ha titolo idoneo?), verifica i parametri dimensionali (magari l’impresa rientra tra le “minori” non fallibili) e in generale valuta se ci siano spazi per opporsi o prendere tempo.
  • Assistenza nell’istruttoria prefallimentare: all’udienza in tribunale, l’imprenditore dev’essere rappresentato dal suo avvocato, il quale esporrà al giudice gli argomenti difensivi o le proposte alternative. Ad esempio, l’avvocato può eccepire che il debitore non è insolvente perché esiste una trattativa in fase avanzata per un accordo di ristrutturazione, chiedendo quindi una proroga. Oppure può far emergere che alcuni debiti contestati sono sub iudice e senza quelli non si supera la soglia dei €30.000. L’avvocato inoltre tutela i diritti procedurali del debitore: verifica che la notifica sia avvenuta nei termini, che l’udienza si svolga correttamente, ecc. Se il tribunale appare orientato a dichiarare il fallimento, il legale può chiedere (ove opportuno) di posticipare di qualche settimana la decisione per tentare un ultimo accordo coi creditori o per definire una domanda di concordato preventivo già preannunciata. Qualora la sentenza di liquidazione venga comunque pronunciata, l’avvocato valuterà con il cliente se presentare reclamo in appello nei 30 giorni: ciò si farà tipicamente se si ravvisano vizi o se nel frattempo è emersa una soluzione (ad es. un finanziatore esterno) che renderebbe non necessaria la procedura. Spesso però il reclamo serve solo a guadagnare tempo e raramente sovverte la decisione, pertanto il legale e il cliente dovranno soppesare costi/benefici di un’impugnazione.
  • Rapporto con il Curatore: dopo la dichiarazione di apertura, il baricentro si sposta sul curatore. L’imprenditore ha interesse a mantenere un rapporto collaborativo e trasparente col curatore. L’avvocato può assisterlo in questo dialogo: ad esempio, affianca l’imprenditore nel consegnare i documenti, assicurandosi che venga redatto un verbale dettagliato di consegna (per evitare accuse di mancanza di scritture); lo prepara all’eventuale interrogatorio davanti al giudice delegato, consigliandogli di dire la verità ma anche di far presenti eventuali circostanze attenuanti (es. crisi di settore, crediti verso clienti insolventi che hanno causato il suo default, ecc.). Se l’imprenditore persona fisica ha necessità di ottenere un’assegnazione di somme per il mantenimento (ex art. 147 C.C.I.I.), l’avvocato può fare istanza al giudice delegato affinché una parte dei suoi redditi sia lasciata a disposizione per vivere. Questo è cruciale nei casi di piccoli imprenditori che rimangono senza alcun mezzo di sostentamento.
  • Verifica del passivo: l’avvocato dell’imprenditore/debitore in liquidazione in genere non ha un ruolo ufficiale nell’esame dello stato passivo, in quanto il fallito non è legittimato a contestare le domande altrui (spetta al curatore). Tuttavia, se il debitore ritiene che qualche pretesa sia infondata o gonfiata (es. un creditore presenta un conto esorbitante), può segnalarlo informalmente al curatore tramite il proprio avvocato, fornendo elementi per un’eventuale contestazione. In alcuni casi, soprattutto per le società fallite, gli ex amministratori possono avere interesse che certi crediti non siano ammessi (si pensi a fideiussioni personali su debiti sociali: il socio fallito preferisce che quei debiti vengano esclusi per ridurre la sua esposizione di garanzia). Il legale allora dovrà muoversi con delicatezza: formalmente il fallito non è parte del giudizio di verifica, ma può fare ricorso in opposizione contro lo stato passivo se ritiene che un credito sia stato illegittimamente ammesso, solo per evitare pregiudizio al proprio patrimonio extra-fallimentare. Ad esempio, se la società è fallita ma un socio illimitatamente responsabile no (perché magari società cessata da oltre 1 anno), quel socio potrebbe opporsi ai crediti nel fallimento societario. Situazioni complesse dove l’assistenza legale è imprescindibile.
  • Protezione dei beni personali non compresi: qualora il curatore tentasse di includere beni che il debitore ritiene personali e non compresi nella massa (ad es. beni in comunione con il coniuge, beni di terzi in possesso del fallito), l’avvocato può presentare al giudice delegato istanze e reclami per tutelare tali diritti. Ad esempio, la moglie del fallito, con il supporto legale, può proporre un’azione di rivendica per far escludere un immobile di sua proprietà erroneamente coinvolto. L’avvocato del fallito spesso coordina queste iniziative con eventuali avvocati di familiari o terzi interessati.
  • Gestione dei rapporti coi creditori e accordi transattivi: benché con la liquidazione giudiziale i creditori agiscano tramite la procedura, può capitare che alcuni creditori siano disponibili a transigere o a sostenere un concordato fallimentare. L’avvocato del debitore intrattiene dialoghi riservati con alcuni creditori (soprattutto privilegiati) per valutare la praticabilità di un concordato nella liquidazione: ad esempio, negozia col principale istituto di credito un accordo sul pagamento parziale ma rapido del suo credito, in cambio dell’appoggio a una proposta concordataria. Tali negoziazioni parallele possono essere decisive per la sorte dell’impresa residua (es. un creditore potrebbe essere interessato a rilevare l’azienda). Il legale, con la dovuta trasparenza verso il curatore, può facilitare queste intese che talvolta portano a azioni di reclamo congiunto per convertire il fallimento in concordato.
  • Difesa nelle azioni revocatorie e risarcitorie: se il curatore avvia contro l’imprenditore (o i garanti) cause di revocatoria (per atti come pagamenti effettuati prima del fallimento) o azioni di responsabilità (per mala gestio), l’imprenditore avrà bisogno di difesa. Anche se formalmente si tratta di cause tra curatore e terzo (il fallito, in questo caso), l’avvocato difensore cercherà di dimostrare che l’atto contestato non era pregiudizievole o che il fallito non aveva la consapevolezza dello stato d’insolvenza da parte del terzo, al fine di evitare una condanna alla restituzione. Parimenti, in caso di citazione per responsabilità (es. da amministratore), il legale contrasterà le tesi del curatore, magari sostenendo che il danno lamentato non discende dalle condotte del suo cliente o che gli amministratori hanno agito con diligenza (magari avvalendosi di consulenze tecniche).
  • Tutela dell’imprenditore in sede penale: qualora vengano aperte indagini o un processo penale per bancarotta a carico dell’imprenditore, il ruolo dell’avvocato penalista (spesso il medesimo avvocato fallimentare o un collega specializzato) è vitale. Egli provvederà a raccogliere elementi a discarico, ad esempio dimostrando che certe operazioni contestate erano in realtà destinate a cercare di salvare l’impresa (non fatte per frodare). Potrà inoltre evidenziare l’assenza di dolo: ad esempio, spese personali elevate ma giustificate dallo status, oppure distrazioni apparenti che in realtà erano pagamenti di fornitori essenziali. L’avvocato sfrutterà anche l’atteggiamento collaborativo post-fallimento del cliente (consegna documenti, facilitazione del lavoro del curatore) per chiedere eventualmente attenuanti o riti alternativi meno afflittivi. In alcuni casi, se la situazione lo permette, potrà negoziare col PM un patteggiamento contenuto. La coordinazione tra difesa penale e gestione della procedura è delicata: ad esempio, ammettere in sede penale di aver distratto un bene significa esporci a un’azione risarcitoria del curatore; viceversa, una transazione col curatore (restituendo il bene) può essere molto utile per mitigare la pena penale. Tutto ciò richiede una strategia integrata seguita dall’avvocato in accordo col cliente.
  • Fase di chiusura ed esdebitazione: l’avvocato assiste l’imprenditore anche nel momento finale. Se la procedura si avvia a chiusura, il legale verifica che tutte le istanze siano state presentate (ad esempio richiesta di eventuale riabilitazione civile, se c’erano interdizioni ulteriori, e soprattutto la richiesta di esdebitazione dei debiti residui). La domanda di esdebitazione, se non avviene d’ufficio, va presentata entro 1 anno dalla chiusura con l’ausilio di un legale e notiziando tutti i creditori. È un passaggio cruciale per ridare all’ex fallito una vita economica normale. L’avvocato prepara la memoria evidenziando la condotta diligente e collaborativa del cliente (es. che non ha ostacolato il curatore, che il fallimento è stato causato da fattori esterni, ecc.), così da persuadere il tribunale ad accogliere l’esdebitazione. In caso di eventuali opposizioni di creditori (rari, ma possibili se credono in comportamenti scorretti), il legale li contrasta in udienza.
  • Dopo la chiusura: l’avvocato può continuare a consigliare l’imprenditore su come gestire il “dopo”. Ad esempio, se l’imprenditore vuole aprire una nuova attività, il legale spiega quali limitazioni permangono (poche, in verità, dopo l’esdebitazione nessuna, ma la reputazione va ricostruita). Oppure se sono in corso ancora contenziosi non risolti nel fallimento (magari un giudizio tributario sospeso), l’avvocato ne riprende in mano le fila per chiuderli nel migliore dei modi.

In conclusione, l’avvocato è la guida legale che permette all’imprenditore di attraversare la burrasca del fallimento con maggiore sicurezza: previene errori, tutela i diritti, media con gli organi della procedura e, quando serve, lo difende in giudizio. La complessità delle norme fallimentari e la gravità delle conseguenze impongono di affidarsi a professionisti esperti in diritto della crisi d’impresa. Nella sezione seguente, dopo aver descritto effetti ed implicazioni, esamineremo brevemente gli strumenti alternativi alla liquidazione giudiziale (concordati, accordi) che l’avvocato può suggerire all’imprenditore per gestire la crisi.

Effetti Patrimoniali, Fiscali e Reputazionali del Fallimento

La liquidazione giudiziale implica una profonda interferenza nei diritti patrimoniali dell’imprenditore, e produce conseguenze anche sul piano fiscale e dell’immagine professionale. È utile riepilogare tali effetti.

Effetti Patrimoniali sul Debitore e sui Creditori

Dal lato del debitore, il principale effetto è il già esposto spossessamento: tutti i beni di sua proprietà entrano nel fallimento e sono gestiti dal curatore . Il debitore non può più disporne né amministrarli. Eventuali atti dispositivi compiuti autonomamente (vendite, ipoteche concesse, incassi di crediti, pagamenti effettuati) dopo l’apertura sono inefficaci rispetto ai creditori : se ad esempio il fallito incassa personalmente un credito dal cliente e se ne appropria, dovrà restituirlo alla massa. In pratica, il suo patrimonio viene congelato e destinato esclusivamente al soddisfacimento dei creditori concorsuali. Anche i nuovi beni acquisiti durante il fallimento possono essere attratti (salvo siano, come visto, di natura strettamente personale o alimentare).

Un effetto correlato è lo spostamento del potere di gestione contrattuale: i contratti in corso d’esecuzione (non totalmente eseguiti) passano sotto il controllo del curatore, che può scegliere di subentrare nel contratto o sciogliersi da esso (art. 172 C.C.I.I., ex art. 72 L.F.). Ad esempio, se il fallito aveva un contratto di fornitura in corso, il curatore deciderà se proseguirlo (se utile all’attivo) o interromperlo. Il fallito perde la capacità di decidere in merito.

Dal lato dei creditori, l’effetto primario è il divieto di azioni individuali: dalla data di apertura nessun creditore può iniziare o proseguire cause esecutive o cautelari sul patrimonio del fallito . E quelle già pendenti restano sospese. Ad esempio, se un creditore aveva un pignoramento in corso sui beni del debitore, esso viene automaticamente bloccato e sostituito dall’azione concorsuale (l’ufficiale giudiziario deve fermarsi e rimettere gli atti al fallimento). Questo garantisce la par condicio: tutti i creditori concorrono paritariamente e non c’è più spazio per il “chi arriva primo prende tutto”. È importante notare però che i creditori muniti di pegno o ipoteca conservano il diritto di essere preferiti sul ricavato del bene vincolato; tuttavia, anch’essi non possono procedere alla vendita separata (salvo alcune eccezioni come il credito fondiario delle banche, che per legge consente alla banca di proseguire l’esecuzione immobiliare nonostante il fallimento, ex art. 41 TUB). Su questo aspetto, la Cassazione recente (sent. 22914/2024) ha confermato l’applicabilità del privilegio fondiario: la banca può scegliere di escutere separatamente il bene ipotecato anche se il debitore è in fallimento, fermo restando l’obbligo poi di versare l’eventuale eccedenza al fallimento. In generale, però, i creditori devono presentare la domanda di insinuazione e attendere i riparti concorsuali, perdendo il controllo individuale.

I creditori vedono i loro debiti trasformati in crediti verso la massa. Gli interessi sui debiti chirografari cessano di maturare dalla data di fallimento (principio generale: nel concorso i crediti chirografari sono cristallizzati al giorno della dichiarazione, senza più interessi, salvo poi riprenderli dal decreto di riparto finale se non integralmente soddisfatti). Le cause di natura cognitoria (accertamento del credito) invece proseguono in sede fallimentare con l’opposizione allo stato passivo.

Per i garanti del debitore fallito (es. fideiussori, coobbligati) la situazione non cambia: il creditore può agire contro di loro. Se il garante paga, si surroga al creditore e subentra nel fallimento (domanda di surroga). Dunque il fallimento non blocca le azioni contro terzi garanti. Attenzione però: se più soci illimitati falliscono, i creditori sociali possono insinuarsi solo una volta nel passivo della società, ma poi faranno valere l’eventuale residuo sui patrimoni personali dei soci (coordinamento tra procedure).

Conseguenze Fiscali e Tributarie

La procedura concorsuale ha impatti significativi anche sul piano fiscale, sia per quanto riguarda gli adempimenti sia per il trattamento di alcuni tributi e debiti fiscali:

  • Soggettività fiscale durante il fallimento: Quando un’impresa (società o ditta individuale) fallisce, non cessa immediatamente di esistere ai fini fiscali. La società fallita, pur perdendo la capacità di agire, rimane un soggetto passivo d’imposta finché non è estinta (per le società di capitali) o finché dura la procedura (per le ditte individuali). Il curatore assume il ruolo di legale rappresentante fiscale. Ciò implica che il curatore dovrà presentare, se dovuti, le dichiarazioni dei redditi per i periodi ante-fallimento non ancora dichiarati (come sostituto del contribuente) e anche una dichiarazione per l’intero anno in cui cade il fallimento, suddividendo il periodo pre e post dichiarazione di fallimento. Ad esempio, se una società fallisce a marzo 2025, il curatore presenterà: la dichiarazione per il periodo 1/1 – data fallimento a nome della società (redditi fino a quel momento, tasse dovute come crediti insinuabili), e poi per la gestione fallimentare (dalla data fallimento al 31/12) se vi sono redditi tassabili generati dalla curatela. Spesso comunque l’attività d’impresa cessa e i redditi fallimentari sono solo plusvalenze da cessione beni.
  • IVA e altre imposte indirette: Il curatore deve gestire l’IVA sulle operazioni compiute durante la procedura (vendite beni, ecc.). Presenta quindi dichiarazioni IVA per l’anno in corso. Le cessioni effettuate dal curatore sono normalmente soggette a IVA (salvo esenzioni): l’IVA incassata è un debito prededucibile (costo della procedura) che il curatore dovrà versare, e l’IVA sugli acquisti è credito della massa. In caso di fallimento senza prosecuzione di attività, di solito il curatore chiede la chiusura della partita IVA dopo aver compiuto le vendite principali e aver assolto i relativi versamenti. È previsto un modello specifico (modello IVA 74-bis) da presentare per comunicare i dati IVA in caso di fallimento, ed è stato aggiornato per l’uso telematico.
  • Debiti tributari e contributivi pregressi: i debiti verso il Fisco (imposte) o enti previdenziali maturati prima del fallimento si considerano crediti concorsuali. L’Agente della Riscossione (AdER, ex Equitalia) e gli enti competenti devono insinuarsi al passivo entro i termini. Tali crediti di solito beneficiano di privilegi: ad esempio, l’IVA e le ritenute non versate hanno privilegio generale sui mobili, i contributi INPS pure, mentre IRES e IRAP sono chirografari (salvo ruoli entro certi limiti). In pratica, lo Stato e gli enti pubblici partecipano come creditori e vengono soddisfatti secondo l’ordine dei privilegi. Non possono avviare o proseguire azioni esecutive (fermi amministrativi, pignoramenti) sul patrimonio concorsuale. Devono anch’essi rispettare la par condicio. Un effetto favorevole per il debitore è che, se alla chiusura del fallimento tali debiti rimangono insoddisfatti (in tutto o in parte), non potranno più essere richiesti al debitore persona fisica esdebitato. Per le società estinte, i debiti fiscali insoddisfatti restano a carico dei garanti o amministratori (solo se legalmente responsabili in solido, es. per mancato versamento IVA l’amministratore può rispondere nel penale e talvolta nel civile se c’è danno erariale, ma l’ente dovrà intraprendere cause separate). Va detto che l’esdebitazione libera la persona anche dai debiti erariali (a differenza di qualche vecchia limitazione ormai superata).
  • Tassazione delle sopravvenienze attive da falimento: secondo le norme tributarie, se un debitore ottiene uno sconto o annullamento di debiti (sopravvenienza attiva), ciò costituirebbe reddito tassabile. Tuttavia, l’art. 88 comma 4-quater TUIR dispone che non sono tassabili le sopravvenienze attive derivanti da procedure di concordato preventivo o fallimentare per le imprese. Dunque, se col fallimento l’imprenditore viene liberato di debiti, questo “guadagno” non genera IRES/IRPEF. Anche l’esdebitazione per le persone fisiche non produce reddito tassabile. Questa è una importante agevolazione fiscale per chi si risana: non viene ulteriormente colpito dal fisco per i debiti cancellati.
  • Transazioni fiscali e previdenziali: Nel contesto di concordati o accordi, esiste la possibilità di proporre transazione fiscale (art. 63 C.C.I.I., ex art. 182-ter L.F.), cioè un accordo di stralcio parziale dei debiti fiscali e contributivi nell’ambito di un piano concordatario. Nel fallimento la transazione fiscale può concretizzarsi nel concordato fallimentare: come visto, il Correttivo 2024 consente al giudice di omologare il concordato anche senza l’adesione del fisco se la proposta è conveniente. Questo è rilevante perché spesso l’Erario è uno dei maggiori creditori e il suo voto contrario bloccherebbe l’accordo; ora si può superare con il cram down fiscale.
  • Spese fiscali agevolate: alcune operazioni in fallimento beneficiano di agevolazioni. Ad esempio, gli atti del curatore come i decreti di trasferimento possono essere esenti dall’imposta di registro o usufruire di aliquote fisse ridotte (la legge d’imposta prevede alcune esenzioni per atti in procedure concorsuali). Anche il cosiddetto saldo e stralcio delle cartelle per contribuenti falliti può essere previsto da normative speciali (es. recenti provvedimenti hanno talora cancellato sanzioni e interessi su ruoli di soggetti falliti chiusi entro certi anni). È sempre bene che il curatore e il legale valutino eventuali opportunità normative per ridurre l’esposizione fiscale del fallito.

In sostanza, il fallimento segna uno spartiacque anche fiscale: chiude il periodo d’imposta del fallito e ne apre uno nuovo in capo alla massa, congela i debiti fiscali pregressi trasformandoli in crediti concorsuali, e concede talora misure di favore (non tassabilità dei tagli di debito, possibili accordi al ribasso). Tuttavia, i rapporti con il Fisco vanno gestiti attentamente: il curatore dovrà ad esempio comunicare all’INPS i dati per consentire ai dipendenti di ottenere le anticipazioni dal Fondo di Garanzia (lo vedremo tra poco), e assicurarsi di pagare i tributi dovuti dalla gestione fallimentare (come l’IVA sulle vendite) per non incorrere egli stesso in responsabilità. A tal proposito, l’INPS con la Circolare n. 46/2023 ha fornito chiarimenti sugli obblighi contributivi del curatore, ad esempio riguardo alla chiusura dei rapporti di lavoro e alla corresponsione delle ultime mensilità ai dipendenti. Il curatore deve comunicare tempestivamente agli enti la data di apertura della procedura (ad esempio all’INPS per consentire ai lavoratori l’accesso alla Naspi se licenziati).

Impatto sui Dipendenti e Rapporto di Lavoro

Un caso particolare di effetti patrimoniali riguarda i dipendenti dell’azienda fallita. Il fallimento di per sé non risolve automaticamente i contratti di lavoro subordinato in essere, ma è in genere seguito dal licenziamento collettivo dei lavoratori per cessazione dell’attività (a meno che vi sia esercizio provvisorio). Il curatore, subito dopo la dichiarazione, se l’impresa cessa, comunica la cessazione dei rapporti di lavoro al centro per l’impiego e procede al licenziamento, rispettando le procedure di legge (consultazione sindacale se applicabile, ecc.). I lavoratori maturano un credito per trattamento di fine rapporto (TFR) e le ultime retribuzioni non pagate. Tali crediti dei dipendenti godono di privilegio speciale e generale sui mobili (entro certi massimali per le ultime 3 mensilità) e quindi vengono ammessi al passivo con prelazione elevata. Tuttavia, indipendentemente dalla soddisfazione in sede concorsuale, i dipendenti possono accedere al Fondo di Garanzia INPS che interviene a pagare loro il TFR e le ultime tre mensilità arretrate. Il Fondo poi si surroga nel fallimento al posto del lavoratore.

Nel 2023 l’INPS ha aggiornato la disciplina di questo Fondo per adeguarla al Codice della Crisi. La Circolare INPS n. 70 del 26/07/2023 specifica che, per attivare il Fondo in caso di fallimento, il riferimento temporale è la data di deposito del ricorso ex art. 37 co.2 C.C.I.I., e recepisce la giurisprudenza consolidata. In pratica, i lavoratori possono chiedere all’INPS il pagamento del loro TFR e stipendi dopo che il loro rapporto è cessato a causa del fallimento, presentando la domanda telematica (c.d. mod. FG). L’INPS, una volta verificato lo stato passivo (serve il decreto di esecutività che attesta il loro credito), liquiderà quanto dovuto entro i massimali di legge. Questo garantisce ai dipendenti una tutela rapida, senza dover attendere i tempi (spesso lunghi) dei riparti fallimentari.

Per l’azienda, questo meccanismo significa che i crediti dei dipendenti vengono soddisfatti dal Fondo e l’INPS diviene creditore surrogato nel fallimento, privilegiato come erano i lavoratori. Se poi in sede di riparto il curatore paga qualcosa su quei crediti, l’INPS recupera la parte che ha anticipato.

Se l’impresa prosegue l’attività con esercizio provvisorio o affitto d’azienda, i contratti di lavoro possono proseguire temporaneamente sotto la gestione del curatore o dell’affittuario. In caso di cessione dell’azienda a un acquirente, può avvenire il trasferimento dei dipendenti ai sensi dell’art. 2112 c.c. se l’azienda conserva l’identità. Spesso, però, accade che l’azienda fallita cessi e solo in un secondo momento i suoi asset vengano venduti a terzi, i quali potranno riassumere parte del personale a propria discrezione (non c’è obbligo di assorbimento automatico se la cessione avviene dopo la cessazione dell’attività e licenziamento).

Pertanto, dal punto di vista dei dipendenti, il fallimento comporta purtroppo nella maggioranza dei casi la perdita del posto di lavoro, ma con la garanzia di ricevere almeno TFR e qualche mensilità via INPS. Inoltre potranno accedere subito agli ammortizzatori sociali (NASpI) in quanto licenziati per giustificato motivo oggettivo (cessazione attività). L’avvocato dell’impresa, insieme al curatore, può aiutare a gestire correttamente la procedura di licenziamento collettivo, inviando le comunicazioni necessarie e riducendo il rischio di impugnazioni (che comunque col fallimento di solito sono rare, essendo oggettiva la causa di chiusura).

Reputazione e Conseguenze sull’Attività Futuras

Dal punto di vista reputazionale, essere soggetti a liquidazione giudiziale è certamente un evento negativo per l’imprenditore: il termine “fallito” porta uno stigma sociale e commerciale. Anche se il legislatore ha cambiato la denominazione in “liquidazione giudiziale” proprio per attenuare questo stigma, nella sostanza per fornitori, banche e partner sapere che un’impresa (o un imprenditore individuale) è fallita incide sulla fiducia creditizia futura. L’informazione del fallimento di una società resta pubblica attraverso il Registro delle Imprese (la visura indicherà lo stato di liquidazione giudiziale fino alla chiusura) e per le persone fisiche gli effetti interdittivi su cariche possono essere noti nei certificati del casellario giudiziale (se vi sono condanne penali con pene accessorie).

Tuttavia, va anche considerato che l’ordinamento moderno offre, attraverso l’esdebitazione, la possibilità di riabilitazione economica completa. Oggi un imprenditore fallito onesto, dopo la chiusura, può riprendere ad esercitare una nuova attività senza preclusioni legali. Anche le banche dati delle centrali rischi vengono aggiornate: il debito residuo viene segnato come “cancellato per procedura concorsuale” e dopo alcuni anni cancellato. Certo, ottenere nuovo credito non è semplice: probabilmente l’imprenditore dovrà iniziare in piccolo, spesso utilizzando prestanome o familiari, oppure cambiando settore. Ma in un’ottica di sistema, la presenza di procedure fallimentari efficienti e di esdebitazione mira proprio a dare una seconda opportunità a chi fallisce, riducendo lo stigma. Questo concetto di fresh start è promosso anche dall’Unione Europea (Direttiva UE 2019/1023).

Dal lato dei mercati, chi entra in rapporto con un soggetto che ha avuto un fallimento guarderà anche alle cause: c’è differenza tra un fallimento dovuto a sfortuna o crisi di settore e uno provocato da frodi o condotte criminali. Nel secondo caso, la reputazione è gravemente compromessa (specie se vi sono condanne per bancarotta fraudolenta). Nel primo caso, invece, non sono rari imprenditori che, dopo un fallimento, riescono a fondare nuove imprese e avere successo (famoso l’aneddoto su Henry Ford, fallito più volte prima di affermarsi). In Italia storicamente c’era più diffidenza verso chi ha fallito, ma la cultura sta lentamente cambiando.

Per quanto riguarda la società fallita, se chiude la procedura senza soddisfare tutti i creditori e viene cancellata, la sua reputazione cessa di avere rilevanza (la società non esiste più). Se invece, come visto, in rari casi una società torna “in bonis” dopo il fallimento (perché chiuso per pagamento integrale creditori o per mancanza di passivo), dovrà molto lavorare per riconquistare la fiducia e probabilmente cambierà anche denominazione per scrollarsi di dosso il passato.

Rapporti con Creditori, Dipendenti ed Enti Pubblici

La liquidazione giudiziale implica l’interazione con diverse categorie di stakeholders: creditori (fornitori, banche, ecc.), dipendenti, enti pubblici (Agenzia Entrate, INPS, ecc.). Ciascuna di queste relazioni ha regole particolari nel contesto concorsuale.

Relazioni con i Creditori

Informazione e partecipazione: Fin dall’apertura, i creditori vengono avvisati dal curatore e hanno la possibilità di insinuarsi al passivo . Durante la procedura, i creditori ammessi ricevono periodiche comunicazioni: ad esempio, il curatore invia loro i progetti di riparto ogni quattro mesi per eventuali osservazioni. Inoltre, il curatore deve inviare ogni sei mesi una relazione sullo stato della procedura ai creditori. Questo flusso informativo è importante per mantenere trasparenza e fiducia. I creditori possono costituire un Comitato dei creditori che ha un ruolo consultivo ma anche di controllo: i membri del comitato hanno diritto di ispezionare libri e documenti e devono dare pareri su atti di gestione. Dunque, i maggiori creditori spesso assumono un ruolo attivo tramite il Comitato, che può influenzare scelte del curatore (es. modalità di vendita, opportunità di esercizio provvisorio).

Negoziazioni e votazioni: Se viene proposto un concordato fallimentare, i creditori sono chiamati a esprimersi con il voto. Anche in sede di approvazione dei riparti finali e conto del curatore, i creditori possono presentare osservazioni o reclami. In generale, i creditori vigilano che il curatore operi per massimizzare i recuperi e minimizzare le spese. Se un creditore ritiene che il curatore stia agendo in modo dannoso per la massa (ad es. vendendo beni a prezzo vile), può segnalarlo al giudice delegato o presentare reclamo.

Posizione conflittuale o collaborativa: Di norma, i creditori hanno interesse opposto a quello del debitore (vogliono incassare il più possibile). Tuttavia, in alcuni casi, un creditore può essere interessato a soluzioni alternative (ad es. una banca può preferire un concordato se intravede una maggiore soddisfazione). Ci possono anche essere conflitti tra creditori: es. creditori privilegiati e chirografari potrebbero avere visioni diverse (i chirografari spingono per azioni revocatorie e cause a terzi che aumentino la massa attiva, i privilegiati garantiti dal loro pegno sono meno interessati). Il curatore e il giudice devono gestire questi conflitti nell’interesse della massa globale.

Azioni individuali residuose: Come detto, i creditori non possono agire individualmente sul patrimonio concorsuale. Possono però fare azioni extra-fallimentari in casi particolari: ad esempio, un creditore garantito da fideiussione di terzi può agire contro il fideiussore (quest’ultimo poi si insinuerà come surrogato). Oppure un creditore che abbia causa di credito estranea al concorso (es. credito post-fallimentare verso la massa, quindi prededucibile) può agire nei confronti del curatore se la procedura rifiuta di riconoscerlo, sebbene in genere anche queste sono gestite dal tribunale fallimentare. I creditori chirografari non hanno altra scelta che attendere l’esito della procedura.

Compensazione e rapporti bilaterali: Se un creditore è anche debitore del fallito (rapporti reciproci), come detto può operare compensazione alla data di apertura, con i limiti anti-abuso. Questo in pratica definisce la posizione netta con cui partecipare al concorso. Ad esempio, se l’azienda fallita doveva 100 ad un fornitore ma vantava 40 di credito verso di lui, il fornitore dovrà insinuarsi per 60 dopo aver compensato 40 (purché non li abbia acquistati apposta nell’ultimo anno). Per i contratti sinallagmatici in corso (es. leasing): se il curatore si scioglie, il creditore ha solo diritto a insinuarsi per danni contrattuali come da legge (di solito solo differenza tra quanto percepito e il credito residuo attualizzato).

Creditori esteri: Nel caso di creditori esteri, la procedura di fallimento viene comunicata secondo il Regolamento UE 2015/848 se transfrontaliera. I creditori stranieri possono insinuarsi con pari diritto. Il curatore spesso traduce l’avviso in inglese per facilitarli.

Rapporti con i Dipendenti

In parte ne abbiamo già parlato: i dipendenti di regola vengono licenziati a seguito del fallimento (salvo esercizio provvisorio). Il curatore deve gestire questa fase con attenzione anche al profilo umano: convocare un’assemblea con i lavoratori, spiegare la situazione, fornire indicazioni su come far valere i loro crediti (insinuazione) e su come chiedere gli interventi di garanzia (moduli per il Fondo di Garanzia INPS). Spesso i sindacati si attivano per assistere i lavoratori del fallimento. L’avvocato dell’azienda può cooperare col curatore per predisporre le lettere di licenziamento e la modulistica necessaria.

Dal punto di vista della procedura, i lavoratori diventano creditori privilegiati per: retribuzioni degli ultimi 5 mesi (di cui però solo 3 mesi rientrano nel privilegio speciale sui mobili ex art. 2751-bis c.c.), trattamento di fine rapporto e indennità di preavviso. Hanno privilegio sul mobilio dell’impresa e, per il TFR, anche sul privilegio immobiliare generico se l’impresa possiede immobili. Comunque l’intervento dell’INPS fa sì che nella maggior parte dei casi tali crediti vengano soddisfatti indipendentemente dal fallimento.

Se l’attività prosegue in esercizio provvisorio, i lavoratori continuano a essere pagati come debiti di massa (prededucibili), e il curatore può ridistribuire mansioni o sospendere temporaneamente i contratti. Può anche ricorrere ad ammortizzatori come la Cassa integrazione straordinaria per fallimento, ove prevista (ci sono stati in passato strumenti di CIGS per aziende fallite di rilevanti dimensioni, per supportare reindustrializzazioni; attualmente la normativa prevede CIGS per crisi ma non specificamente per fallimento, salvo accordi del Ministero).

Qualora si arrivi a vendere l’azienda o rami di essa ad un nuovo imprenditore, i lavoratori possono transitare al compratore con accordi sindacali (di solito riducendo organico o armonizzando contratti). Il Jobs Act e le norme successive hanno disciplinato il trasferimento d’azienda in contesti di crisi permettendo deroghe ad alcune tutele, ma il tema è complesso. Basti dire che il fallimento di per sé risolve i contratti di lavoro, quindi un eventuale acquirente acquista l’azienda libera da personale salvo decida di riassumerlo ex novo, mentre nel concordato preventivo in continuità la regola dell’art.2112 c.c. di mantenimento dei contratti opera, salvo accordi diversi.

Rapporti con Enti Pubblici e Autorità

Gli enti pubblici coinvolti tipicamente sono: Agenzia delle Entrate (per tasse), Agenzia Riscossione, INPS (contributi, Fondo Garanzia), INAIL, eventuali enti locali (IMU/TARI), uffici doganali, ecc. Questi enti diventano creditori concorsuali per i rispettivi crediti e devono insinuarsi come gli altri. L’interlocuzione con loro avviene prevalentemente tramite la sede giudiziaria (insinuazioni, eventuali opposizioni su ammissioni). Può capitare che l’Agenzia delle Entrate in sede di verifica fiscale successiva contesti al curatore il trattamento di qualche operazione: ad esempio cessioni di beni ad un certo valore con eventuali plusvalenze. Il curatore e il legale devono allora confrontarsi con l’Agenzia (anche mediante istanze di interpello se opportuno) per chiarire il regime fiscale di operazioni complesse (ad es. la cessione in blocco dell’azienda: parte del prezzo imputabile ad avviamento ecc.).

Le Autorità di vigilanza: se l’impresa era soggetta a vigilanza pubblica (es. una banca, un’assicurazione, un’azienda in settori regolati), all’insolvenza spesso si attivano procedure speciali (amministrazione straordinaria per banche, ecc.). Il Codice della Crisi comunque prevede che le autorità di vigilanza possano esse stesse presentare istanza di fallimento. In tal caso l’autorità collaborerà col curatore fornendo magari informazioni.

Procedimenti amministrativi in corso: Se l’impresa aveva appalti pubblici, licenze, concessioni, il fallimento può comportare la decadenza da questi. Ad esempio, un fallimento di un’impresa appaltatrice di opera pubblica di solito porta alla risoluzione del contratto d’appalto per inadempimento (lo Stato affiderà a terzi completamento, e il curatore tratterà col nuovo appaltatore per vendere eventuali materiali). Un altro esempio: se l’impresa fallita aveva autorizzazioni ambientali, il curatore deve comunque rispettare obblighi (es. bonifiche) e interfacciarsi con enti competenti.

Tributi locali e canoni: L’interlocuzione col Comune può riguardare ad esempio la TARI (tassa rifiuti) dovuta fino a cessazione attività – il Comune si insinua per gli anni non pagati. Oppure questioni come la chiusura di scia commerciali, etc. Il curatore spesso chiede esenzioni per periodi successivi alla cessazione (ad es. chiederà di cessare l’utenza rifiuti al giorno di chiusura dell’azienda).

Procedimenti giudiziari da segnalazione enti: Un’altra interazione è quella penale: se ad esempio emergono reati tributari (dichiarazioni fraudolente, omessi versamenti IVA sopra soglia penale), l’Agenzia Entrate o GdF segnalano alla Procura. Spesso nel calderone del fallimento confluiscono anche procedimenti per reati fiscali pregressi. Il fallito può doversi difendere parallelamente per quelli (es. omesso versamento IVA per 200k euro). Talvolta la soluzione transattiva con il fisco (pagare parte del dovuto col concordato) può portare all’estinzione di quei reati (per l’omesso versamento se saldi integralmente il debito entro termini di legge, si estingue il reato). Quindi c’è anche questo coordinamento: l’avvocato, col curatore, potrebbe puntare a definire debiti fiscali in modo da risolvere guai penali del cliente.

Caso Particolare: Procedura Unitaria di Gruppo

Con le novità del Codice, se più società di un gruppo falliscono, si può avere una liquidazione di gruppo unitaria. In tal caso, i rapporti con creditori e enti vanno gestiti tenendo conto che ogni società ha il suo patrimonio separato, ma vi è coordinamento. Ad esempio, se tra le società del gruppo vi sono crediti e debiti incrociati, i curatori (o il curatore unico nominato per il gruppo) compenseranno internamente. I creditori di una società non possono rivalersi sull’attivo di un’altra (no confusione di patrimoni), ma il tribunale unico facilita le operazioni (un solo giudice delegato, eventuali concordati di gruppo unici). Per gli enti pubblici creditori di più società del gruppo, cambia poco: faranno più insinuazioni, una per società. Però la presenza di un unico procedimento evita duplicazioni di sforzi (un solo giudice, eventuali commissari giudiziali coordinati nelle soluzioni).

In sintesi, creditori, lavoratori ed enti pubblici interagiscono nel fallimento in un contesto formalizzato: i loro diritti sono cristallizzati, ma protetti in modo collettivo. La procedura concorsuale è un tavolo unico dove tutti questi attori devono interfacciarsi tramite le regole predisposte (insinuazioni, comitato creditori, ecc.). L’avvocato svolge spesso una funzione di “ponte” e mediatore: ad esempio, può facilitare accordi con l’Erario, dialogare con i sindacati per il bene dei lavoratori (specie in prospettiva di reimpiego in caso di cessione azienda) e mantenere i creditori informati per prevenire contenziosi.

Strumenti Alternativi: Concordato Preventivo, Ristrutturazioni e Sovraindebitamento

Come più volte accennato, la liquidazione giudiziale è ultima ratio. L’ordinamento offre una gamma di strumenti alternativi per la gestione della crisi d’impresa che puntano a evitare il fallimento attraverso ristrutturazioni consensuali o semi-consensuali. Qui elenchiamo brevemente i principali, aggiornati al 2025, poiché l’imprenditore con l’aiuto dell’avvocato dovrebbe valutare seriamente queste opzioni prima di arrendersi al fallimento:

  • Composizione negoziata della crisi: Introdotta nel 2021 (D.L. 118/2021) e ora disciplinata nel Codice (artt. 12-25 C.C.I.I.), è un percorso volontario e confidenziale in cui l’imprenditore in crisi, coadiuvato da un esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio, tenta di negoziare con i creditori una soluzione (accordi stragiudiziali, piani attestati, ecc.). Dura pochi mesi ed è priva di effetti diretti sui creditori salvo alcune misure protettive (può chiedere misure protettive al tribunale per sospendere azioni esecutive durante i negoziati). Se ha esito positivo, si può sfociare in un accordo stragiudiziale oppure in uno degli strumenti qui sotto (concordato semplificato, ecc.). Se fallisce, l’esperto lo attesta e l’imprenditore potrà optare per il concordato “semplificato” per liquidazione (vedi oltre). La composizione negoziata non è obbligatoria, ma è uno strumento consigliato per cercare soluzioni tempestive e salvare l’azienda. L’avvocato svolge qui un ruolo di supporto nelle trattative e di predisposizione delle possibili intese. Da notare: la presenza di una composizione negoziata in corso non preclude una successiva dichiarazione di fallimento, però il legislatore ne incentiva l’uso anche a procedure aperte (la pendenza di un’istanza di fallimento non impedisce di accedere alla negoziazione ).
  • Piano di risanamento attestato (art. 56 C.C.I.I.): È un accordo privato tra debitore e alcuni creditori per ristrutturare i debiti, che deve essere accompagnato da una relazione di un esperto indipendente attestante la veridicità dei dati e l’idoneità del piano ad assicurare il risanamento. Non richiede omologazione giudiziaria né coinvolge tutti i creditori (può essere anche parziale). Serve principalmente per escludere la revocabilità degli atti posti in essere in esecuzione del piano (safe harbour previsto dall’art. 67, co.3, lett. d) L.F., ora art. 166 C.C.I.I.). In pratica, è un accordo stragiudiziale con “bollino” di un esperto per dare fiducia. Se l’imprenditore riesce, ad esempio, a convincere banche e fornitori principali a riscadenzare i debiti e garantire nuova finanza, può fare un piano attestato e cercare di evitare il fallimento. L’avvocato qui negozia i termini con i creditori e cura la stesura degli accordi contrattuali (nuovi mutui, remissioni parziali, ecc.), coordinandosi con l’attestatore (spesso un commercialista) che assevera il piano.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD): Previsto dagli artt. 57-64 C.C.I.I., è un accordo omologato dal tribunale se sottoscritto da creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti. A differenza del piano attestato, l’ARD richiede una soglia di adesioni significativa e l’intervento del tribunale che, valutato il piano e l’attestazione, lo omologa rendendolo vincolante per i creditori aderenti e, con limitati effetti, per i non aderenti (che rimangono estranei salvo misure protettive temporanee). Il vantaggio dell’ARD è la flessibilità: può prevedere dilazioni, stralci, cessione di beni, ecc., con accordo solo parziale (non serve il 100% di adesione). I creditori non aderenti vanno pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa o scadenza, per tutela. Esistono varianti come gli accordi ad efficacia estesa (se il 75% delle banche aderisce, il tribunale può estendere l’accordo anche alle banche dissenzienti di quella categoria, art. 61) e gli accordi agevolati (con soglie ridotte per PMI). L’avvocato in un ARD prepara la proposta contrattuale, raccoglie le adesioni, e segue la fase di omologa in tribunale. Spesso l’ARD è usato da aziende che hanno crisi finanziarie ma solvibilità industriale ancora buona, e creditori (in primis banche) disposte a concordare ristrutturazioni del debito.
  • Concordato preventivo: È la procedura concorsuale alternativa per eccellenza, disciplinata dagli artt. 84-120 C.C.I.I. L’imprenditore, prima di fallire, può proporre un concordato preventivo ai suoi creditori, con due possibili finalità: concordato in continuità, se intende proseguire l’attività (in proprio o tramite terzi) assicurando una certa soddisfazione ai creditori col ricavato futuro, oppure concordato liquidatorio, se intende liquidare tutto ma offrire ai creditori un ritorno più efficiente rispetto al fallimento (ad es. tramite apporti di terzi, o rinunce del debitore). Il concordato preventivo richiede l’approvazione dei creditori (maggioranza per teste e per classi) e l’omologa del tribunale. Nel concordato liquidatorio puro, il Codice ora impone un soddisfacimento minimo del 20% ai chirografari (salvo apporti esterni che innalzino tale percentuale, art. 84) per evitare concordati “tombali” dove i creditori prendono poco. Nel concordato in continuità, che è favorito, il pagamento dei creditori può essere anche inferiore a quel 20% purché il piano sia economicamente più vantaggioso della liquidazione. Il concordato con riserva (art. 44, ex “concordato in bianco”) consente di depositare un ricorso prenotativo e poi perfezionare la proposta entro un termine, ottenendo intanto protezione dai creditori. Questa è spesso l’ultima spiaggia utilizzata per evitare una pronuncia di fallimento: se l’imprenditore è trascinato in tribunale da un creditore, può presentare un ricorso di concordato con riserva per congelare la situazione e guadagnare tempo (fino a 180 giorni) per formulare un piano . L’avvocato è fondamentale nei concordati: redige il ricorso, coordina l’elaborazione del piano con l’ausilio di consulenti, interagisce col commissario giudiziale nominato dal tribunale, organizza eventualmente l’adunanza dei creditori, e rappresenta l’azienda in udienza di omologa. Se il concordato va a buon fine, il fallimento è evitato. Il rovescio della medaglia è che se poi il concordato non viene omologato (per bocciatura dei creditori o revoca per atti in frode), quasi sicuramente seguirà il fallimento d’ufficio. Comunque, l’istituto è pensato per dare una chance di ristrutturazione giudiziale all’azienda. A partire dal 2022, con il recepimento della direttiva europea, il concordato in continuità può includere misure come il cram down interclassi (omologa nonostante dissenso di alcune classi, se certe condizioni) e tutela degli investimenti nuovi. Ad esempio, investitori che apportano finanza in concordato in continuità hanno privilegio.
  • Concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio: Introdotto in via transitoria nel 2021 e ora a regime (art. 25-sexies C.C.I.I.), è un tipo di concordato liquidatorio senza voto dei creditori, riservato al caso in cui la composizione negoziata non abbia prodotto esiti. In tale situazione, l’imprenditore può proporre direttamente al tribunale un piano di liquidazione dei beni con riparto ai creditori, e il tribunale può omologarlo se equo, senza passare per il voto dei creditori. È un istituto eccezionale per evitare il fallimento quando la negoziazione è fallita ma c’è comunque la possibilità di liquidare l’azienda in modo ordinato. Ha suscitato dibattiti perché esautora i creditori dal voto. È poco utilizzato finora, ma esiste come opzione. L’avvocato qui avrebbe il compito di predisporre il piano e convincere il tribunale della sua convenienza per i creditori.
  • Procedure di sovraindebitamento: Per completezza, se l’imprenditore non è soggetto a liquidazione giudiziale (es. impresa minore, imprenditore agricolo, professionista), potrà accedere alle procedure previste dalla L.3/2012 come riformate dal Codice: il concordato minore (simile al concordato preventivo ma per non fallibili), l’accordo di composizione (simile ad un ARD, per privati o enti non fallibili) e la liquidazione controllata (simile al fallimento ma per soggetti non fallibili, es. il privato consumatore insolvente). Ad esempio, un artigiano sotto soglia potrà chiedere la liquidazione controllata al posto del fallimento. Queste procedure si svolgono presso il tribunale, spesso con l’ausilio di un gestore nominato dall’OCC (Organismo Composizione Crisi). Sono alternative per le categorie escluse dal fallimento. L’avvocato dovrà indirizzare il cliente verso quella appropriata se ricade in tali categorie.

In definitiva, prima di arrivare al fallimento, c’è un ventaglio di soluzioni che possono essere tentate. Statistiche mostrano che i concordati preventivi in Italia sono meno frequenti dei fallimenti, in parte per la difficoltà di raggiungere accordi con creditori e per i costi eccessivi in proporzione alle masse attive ridotte. Tuttavia, il nuovo Codice punta a incentivarli, relegando il fallimento a evento residuale. Va sottolineato che spesso è la tempestività a fare la differenza: se l’imprenditore si muove quando la crisi è agli inizi (stato di crisi e non ancora insolvenza conclamata), è più probabile che riesca a ottenere accordi o presentare un concordato fattibile; se invece aspetta troppo a lungo, arriva all’insolvenza conclamata e la fiducia dei creditori è azzerata, rendendo inevitabile la liquidazione giudiziale. In ciò, l’avvocato dovrebbe svolgere un ruolo proattivo, consigliando il cliente di non attendere l’ultimo momento per cercare soluzioni.

Casi Pratici e Giurisprudenza Recente

In questa sezione, presentiamo alcuni casi pratici tratti dalla giurisprudenza recente che illustrano l’applicazione concreta dei principi della liquidazione giudiziale e offrono spunti utili per gli imprenditori:

Caso 1: Società agricola e fallibilità – Cass. civ. Sez. I, 16 gennaio 2023 n. 1080. Una società inizialmente agricola aveva successivamente esteso l’oggetto ad attività commerciale, cessando però l’attività prima dell’istanza di fallimento. Una creditrice chiese il fallimento. La Cassazione ha confermato il rigetto: una società che era agricola e ha dismesso l’attività originaria non può essere dichiarata fallita su istanza di un creditore se non risulta la prevalenza effettiva di un’attività commerciale. In pratica, la natura agricola (non fallibile) prevale se non vi è prova che l’impresa esercitasse principalmente attività commerciale. Questa sentenza ribadisce la linea tradizionale: le imprese agricole restano escluse dalla liquidazione giudiziale, e ogni dubbio va risolto a favore della qualificazione agricola. Implicazione: un imprenditore agricolo indebitato non può essere spinto in fallimento dai creditori commerciali, ma dovrà semmai affrontare una liquidazione controllata ex L.3/2012. Chi invece è un’impresa “ibrida” deve valutare bene la prevalenza.

Caso 2: Fusione societaria e fallimento postumo – Cass. civ., ord. 23 maggio 2024 n. 14414. Una società debitrice era stata fusa per incorporazione in altra società e cancellata dal registro, poi nel termine di un anno i creditori hanno chiesto il fallimento della società incorporata ormai estinta. La Cassazione ha stabilito che la fusione comporta sì l’estinzione della società incorporata, ma non impedisce il suo fallimento entro un anno dalla cancellazione, per garantire i creditori. Ciò in applicazione dell’art. … (continuazione) …

Caso 2: Fallibilità dopo fusione – Cass. civ., ord. 23 maggio 2024 n. 14414. Una società incorporate in un’altra per fusione era stata cancellata dal registro, ma entro un anno i creditori hanno presentato istanza di fallimento della società estinta. La Cassazione ha chiarito che la fusione per incorporazione non impedisce il fallimento postumo della società incorporata entro l’anno. Richiamando l’art. 33 C.C.I.I. (già art. 10 L.F.), la Corte ha confermato che, nonostante l’effetto estintivo della fusione, ai creditori è garantita un’ulteriore tutela: la società incorporata resta “in vita” ai fini fallimentari per un anno dalla cancellazione, se l’insolvenza si è manifestata prima o entro tale termine. Questo principio – già sancito dalle Sezioni Unite nel 2001 – impedisce che, fondendosi e cancellandosi, una società eviti la procedura concorsuale a danno dei creditori. Dunque, un imprenditore non può sfuggire al fallimento tramite fusione: i creditori potranno comunque agirvi entro 12 mesi.

Caso 3: Azione del curatore contro gli amministratori – Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2024 n. 11324. In un fallimento, il curatore aveva citato in giudizio gli ex amministratori per malagestio, lamentando che ingenti liquidità erano sparite dalle casse sociali poco prima del dissesto. La Cassazione ha accolto l’azione, affermando un importante principio probatorio: in caso di ingiustificata fuoriuscita di risorse dal patrimonio del debitore, il curatore può limitarsi a contestare l’inadempimento degli amministratori (la distrazione o dissipazione di quei fondi), mentre spetta agli amministratori provare il corretto impiego o la lecita destinazione di tali somme. Inoltre, la Corte ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità degli amministratori verso la società (e di riflesso verso il curatore subentrante): ciò comporta che il curatore deve provare la violazione dei doveri e il danno causato, ma gli amministratori devono poi dimostrare di aver agito diligentemente. In sintesi, chi ha amministrato deve rendere conto dell’ammanco; se non fornisce spiegazioni convincenti, sarà responsabile dei danni verso la massa. Questo caso rende evidente che, in un fallimento, comportamenti gestionali opachi possono ritorcersi contro gli amministratori sul piano patrimoniale personale. Un amministratore che voglia proteggersi dovrebbe quindi documentare accuratamente ogni impiego di cassa, soprattutto in periodi di crisi, per poterlo giustificare in seguito.

(Altri casi recenti): Numerose altre pronunce arricchiscono il panorama: ad esempio, la Cassazione ha confermato la non decisività del cambio terminologico “fallimento/liquidazione giudiziale” ai fini delle norme previgenti – le regole e i principi sostanziali restano applicabili anche con la nuova etichetta. In tema di revocatoria fallimentare, la giurisprudenza ha applicato le nuove finestre temporali e presunzioni dell’art. 166 C.C.I.I. coerentemente con l’impianto previgente: ad esempio, un pagamento avvenuto 8 mesi prima del fallimento, non eseguito con mezzi regolari, è stato revocato presuntivamente perché entro l’anno e anomalo, senza necessità di provare la conoscenza dello stato d’insolvenza da parte del creditore. Sul fronte penale, una sentenza di merito recente ha condannato per bancarotta semplice un imprenditore che, pur senza frode, aveva colpevolmente ritardato la richiesta di fallimento aggravando il dissesto – concretizzando l’ipotesi di cui all’art. 324, lett. d) C.C.I.I.. Ciò conferma che il dovere di tempestività è preso sul serio: procrastinare l’inevitabile, facendo lievitare i debiti, può diventare reato.

Ogni caso pratico ribadisce in fondo lo stesso messaggio: la disciplina della liquidazione giudiziale, pur complessa, è sorretta da principi chiari di tutela dei creditori e di responsabilità dell’imprenditore. Conoscere come tali principi sono applicati concretamente dai tribunali aiuta imprenditori e professionisti a muoversi con maggiore consapevolezza.

Conclusione

La liquidazione giudiziale rappresenta l’epilogo formale della vicenda di un’impresa insolvente. Abbiamo visto come funziona dettagliatamente: i requisiti di apertura, l’iter procedurale passo-passo, i ruoli degli attori coinvolti (imprenditore, avvocato, curatore, giudice, creditori, dipendenti), gli atti da evitare e le responsabilità che possono emergere. Si è evidenziato che, sebbene la liquidazione giudiziale comporti la spossessione del patrimonio dell’imprenditore e potenzialmente sanzioni severe per eventuali condotte illecite, essa offre anche strumenti di composizione e vie d’uscita (come l’esdebitazione) che consentono di voltare pagina.

Per un imprenditore italiano, affrontare queste tematiche con il supporto di un avvocato esperto è fondamentale. Il legale non è solo un difensore tecnico nelle aule di tribunale, ma diventa un consulente strategico che può aiutare a prevenire il fallimento, esplorando soluzioni alternative quando ancora c’è tempo, oppure – se il fallimento è inevitabile – a gestirlo in modo ordinato e con il minor impatto possibile su sé stesso, sulla famiglia e sui collaboratori. In un contesto normativo in evoluzione (come dimostrato dai recenti interventi legislativi del 2022 e 2024) , l’aggiornamento continuo e la pianificazione sono armi essenziali.

Questa guida, aggiornata ad aprile 2025, ha cercato di fornire una visione completa ma accessibile. Naturalmente ogni impresa ha la sua storia e le sue peculiarità: i riferimenti normativi e giurisprudenziali citati serviranno da base, ma la consulenza personalizzata rimane imprescindibile. L’auspicio è che, conoscendo meglio “come funziona” la liquidazione giudiziale, gli imprenditori possano affrontare con meno paura e più lucidità sia le scelte per evitarla (quando possibile) sia il percorso all’interno di essa (se necessario), avvalendosi al meglio del proprio avvocato e degli altri professionisti della crisi d’impresa.

Fonti e Riferimenti Normativi

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (C.C.I.I.), D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, e successive modifiche: artt. 121-283 (Liquidazione Giudiziale); art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza); art. 33 (fallimento dell’imprenditore cessato entro 1 anno); artt. 84-120 (Concordato preventivo); artt. 56-64 (Accordi di ristrutturazione); artt. 12-25 (Composizione negoziata); Titolo VIII artt. 322-341 (Reati concorsuali).
  • Legge Fallimentare previgente (R.D. 16 marzo 1942 n. 267), per confronti terminologici e continuità interpretativa (es. art. 1 L.F. su piccole imprese; art. 10 su fallimento post-cessazione; art. 67 su revocatorie; artt. 216-217 su bancarotta; art. 118 su chiusura). La normativa attuale riprende in parte questi articoli (es. soglie imprese minori in art. 2 co.1 d) C.C.I.I.; fusione e fallibilità, art. 33 C.C.I.I. equivalente a art. 10 L.F.).
  • Decreto “Correttivo” 26 ottobre 2020 n. 147 e Decreto “Correttivo-ter” 17 giugno 2022 n. 83, attuativi Direttiva UE 2019/1023, e D.Lgs. 136/2024: interventi normativi che hanno modificato il C.C.I.I. (riduzione termini insinuazioni tardive, abbassamento termine piano liquidatorio da 180 a 150 gg, introduzione cram-down fiscale nei concordati, norme su gruppo d’imprese, etc.).
  • Codice Civile: art. 2082 e 2135 c.c. (definizione imprenditore commerciale vs agricolo); art. 2382, 2399 c.c. (incapacità del fallito a cariche societarie) ; artt. 2288, 2293, 2315 c.c. (effetti del fallimento sui soci di società di persone) ; art. 2740 c.c. (responsabilità patrimoniale); art. 2901 c.c. (azione revocatoria ordinaria, richiamata dall’art.165 C.C.I.I.); art. 2495 c.c. (cancellazione società, rapporti con art.33 C.C.I.I.); art. 1722 c.c. (estinzione mandato, in relazione a rappresentanza legale in fallimento).
  • Normativa fiscale e previdenziale: DPR 917/86 (TUIR) art. 88 co.4-ter (sopravvenienze attive da riduzione debiti in procedure); DPR 633/72 (IVA) art. 74-bis (dichiarazione IVA fallimento); D.Lgs. 46/99 (riscossione) art. 19 (insinuazione crediti fiscali); Legge 297/1982 art. 2 (intervento Fondo di Garanzia TFR). Circolare INPS n. 70 del 26-07-2023 (Fondo Garanzia TFR e ultime 3 mensilità nelle procedure concorsuali); Circolare INPS n. 46 del 17-05-2023 (obblighi del curatore verso INPS).
  • Giurisprudenza di legittimità:
    • Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010 n. 4060: definizione confini impresa commerciale vs agricola ai fini fallibilità (principio confermato da Cass. 1080/2023).
    • Cass., Sez. I, 16 gennaio 2023 n. 1080: non fallibilità società avente natura agricola prevalente.
    • Cass., Sez. I, 24 gennaio 2023 n. 2162: (ord.) conferma continuità regole nonostante cambio terminologia da fallimento a liquidazione.
    • Cass., Sez. I, 27 luglio 2023 n. 22761: su effetti processuali del fallimento (perdita legittimazione processuale del fallito, ecc.).
    • Cass., Sez. I, 23 novembre 2023 n. 32977: ulteriore conferma non fallibilità impresa agricola (ribadisce orientamento su art. 2135 c.c.).
    • Cass., Sez. I, 23 maggio 2024 n. 14414: fallibilità entro 1 anno di società estinta per fusione (applicazione art.33 C.C.I.I.).
    • Cass., Sez. I, 26 aprile 2024 n. 11324: onere della prova in azione di responsabilità del curatore vs amministratori (distrazioni e inversione onus probandi).
    • Cass., Sez. I, 22 maggio 2024 n. 14243: azione del curatore cumulativa ex art. 255 C.C.I.I. e rapporti con rinunce transattive antecedenti (cumulabilità azioni di responsabilità) .
    • Cass., Sez. I, 5 giugno 2024 n. 15196: legittimazione del curatore ad azione di responsabilità per direzione unitaria (azione ex art. 2497 c.c.) e natura revocatoria di pagamento ai soci.
    • Cass., Sez. V Pen., 11 gennaio 2023 n. 790: configurabilità bancarotta fraudolenta preferenziale (pagamenti preferenziali pre-fallimento puniti come bancarotta fraudolenta patrimoniale) .
    • Cass., Sez. V Pen., 7 luglio 2022 n. 26594: circostanze integranti bancarotta semplice (spese personali eccessive, ritardo aggravante il dissesto) .
    • Trib. Milano, Sez. Fall., decreto 10 ottobre 2022: rigetto concordato preventivo in casi di atti in frode ai creditori ex art. 47 C.C.I.I. con contestuale apertura d’ufficio della liquidazione giudiziale.

Ristrutturazione del Debito nelle Piccole e Medie Imprese: Perché Affidarsi a Studio Monardo

Se gestisci una piccola o media impresa (PMI) in difficoltà finanziaria, sai quanto possono diventare opprimenti i debiti con banche, fornitori, Fisco o INPS.
Tuttavia, esistono strumenti legali per ristrutturare il debito in modo sostenibile, evitare il tracollo e tornare competitivi.

La ristrutturazione del debito aziendale, prevista dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, consente di negoziare con i creditori, proporre un piano di pagamento sostenibile e, nei casi più critici, accedere a procedure protette e omologate dal Tribunale.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa scegliere una guida esperta, con competenze specifiche e riconosciute, per ristrutturare il debito con intelligenza e in piena legalità

Cosa fa per te l’Avvocato Monardo

L’Avvocato Giuseppe Monardo, specializzato nella gestione della crisi aziendale, può:

  • Analizzare con precisione la situazione economica, patrimoniale e debitoria della tua impresa
  • Costruire una strategia di ristrutturazione sostenibile
  • Affiancarti nelle trattative con creditori, banche, enti pubblici
  • Redigere piani conformi alla legge e tecnicamente validi
  • Presentare e seguire le procedure davanti al Tribunale, se necessarie
  • Proteggere l’impresa da azioni esecutive e da responsabilità degli amministratori

Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

L’Avvocato Monardo è:

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto al Ministero della Giustizia
  • Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato secondo il D.L. 118/2021
  • Coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario, tributario ed esecutivo

È uno dei pochi professionisti in Italia autorizzati ad attivare tutte le procedure previste dal Codice della Crisi.

Perché agire adesso

Aspettare significa:

  • Esporsi a revoche bancarie, decreti ingiuntivi e pignoramenti
  • Rischiare la liquidazione giudiziale (ex fallimento)
  • Compromettere la continuità aziendale e la reputazione
  • Subire responsabilità personali e danni irreparabili

Agendo in tempo, con la guida dell’Avvocato Monardo, puoi trasformare la crisi in un’opportunità di rilancio.

In conclusione

La ristrutturazione del debito è il primo passo per salvare l’impresa, tutelare il tuo patrimonio e tornare a lavorare con serenità.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa intraprendere un percorso legale serio, mirato e risolutivo, con una guida esperta e qualificata che ti segue dalla prima analisi fino alla chiusura positiva della crisi.

Qui di seguito tutti i contatti del nostro Studio Legale specializzato nella ristrutturazione dei debiti delle piccole e medie imprese:



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