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USA-Ucraina: l’accordo su minerali e terre rare, spiegato in 8 grafici


Gli Stati Uniti e l’Ucraina hanno firmato una serie di accordi, tre documenti in totale secondo quanto ricostruisce Politico, nell’ambito di un’intesa complessiva sui minerali. Alla fine, il governo di Kiev ha convinto il presidente degli USA, Donald Trump, ad abbandonare alcune delle sue richieste più controverse. Inizialmente, infatti, Washington aveva chiesto una quota di 500 miliardi di dollari delle terre rare e di altri minerali dell’Ucraina in cambio degli aiuti già forniti a Kiev, portando a tensioni sfociate nel durissimo incontro-scontro alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky a fine febbraio. Invece, l’accordo siglato questo mercoledì afferma che la futura assistenza militare americana all’Ucraina sarà considerata parte dei finanziamenti statunitensi in un fondo congiunto per investire nelle risorse naturali dell’Ucraina, oltre che nella ricostruzione post-bellica. L’accordo attribuisce agli USA diritti di prelazione sull’estrazione mineraria in Ucraina tramite investimenti e contratti di offtake, ma stabilisce che Kiev avrà l’ultima parola su cosa e dove verrà estratto. Lo Stato ucraino, inoltre, manterrà la proprietà del sottosuolo. L’accordo ha anche un significato politico non trascurabile. Il testo, infatti, adotta un linguaggio duro contro la Russia sulla guerra, indicando Mosca come aggressore e discostandosi da alcune delle precedenti dichiarazioni di Trump sulla responsabilità e di Zelensky e dell’ex presidente americano Joe Biden per lo scoppio del conflitto. Oltre ad essere non incompatibile e rassicurare la possibile futura integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea.

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Alcuni dei minerali oggetto dell’accordo tra Stati Uniti e Ucraina fanno parte della categoria delle Critical Raw Materials (CRMs), entrate a gamba tesa anche nel dibattito pubblico in seguito alle dichiarazioni di Trump già nei mesi scorsi, con l’attenzione riposta sulle presunte ricchezze minerarie in Groenlandia e Ucraina (che, anticipiamo, non dispone in grandi quantità di terre rare) e la volontà di acquisirne il controllo per ragioni strategiche. Stando, tuttavia, ai fatti più concreti – come la recente firma di un ordine esecutivo per rilanciare le attività minerarie negli Stati Uniti, in attesa di capire il destino dell’Inflation Reduction Act (IRA) – le mosse di Trump sui due dossier potrebbero essere più che altro strumentali ad altri fini.

Inoltre, le dichiarazioni del tycoon hanno alimentato una serie di conclusioni affrettate tra gli osservatori, alimentando la confusione terminologica con l’idea che le cosiddette ‘terre rare’ rappresentino un insieme indistinto di metalli considerati strategici nella competizione internazionale.

Quanto sono rare le ‘terre rare’?

Negli ultimi anni l’attenzione di policymakers e analisti si è progressivamente concentrata sulla Repubblica Popolare Cinese, il cui ruolo è stato spesso ridotto alla celebre affermazione di Deng Xiaoping del gennaio 1992: The Middle East has oil, China has rare earths. Ci sono due elementi che hanno contribuito a mitizzarla.

L’etimologia del termine “terre rare” ha influito sull’interpretazione della frase. Secondo l’idea più diffusa, la loro rarità sarebbe associata alla loro scarsa diffusione sulla crosta terrestre, rafforzando la narrazione per cui solo la Cina ne avrebbe in abbondanza. Una convinzione che avevano i geologi alla fine dell’Ottocento, mentre oggi sappiamo che le risorse e riserve sono distribuite anche in altri continenti. Il fatto che la Cina avesse le terre rare, nell’interpretazione della frase di Deng ha portato l’Occidente, con la crisi del 2010-2011 tra Pechino e Tokio sulle isole Senkaku (un incidente marittimo che ha riacceso la disputa sulle isole contese) e al successivo ban delle esportazioni al Giappone a scoprire, con una certa dose di superficialità, questa percepita dipendenza.

E qui ci agganciamo al secondo motivo. L’idea che controllare questi elementi avesse, e abbia tuttora, un valore intrinsecamente strategico pari al petrolio finisce per veicolare una distorsione della realtà. È possibile che le parole di Deng si riferissero alla concentrazione di terre rare in Cina paragonabili a quella petrolifera in Medio Oriente, più che a prefigurare futuri conflitti (pensiamo a Desert Storm in Iraq, di pochi mesi prima) o “guerre” commerciali per il controllo di quei 17 elementi.

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A partire dalla fine degli anni Novanta le terre rare sono state estratte principalmente in quella regione, con una quota complessiva della Cina al picco del 90% raggiunto nel 2010 con la chiusura, pochi anni dopo, dell’altra grande miniera in California, nel sito di Mountain Pass. Ed è qui che si realizza il cortocircuito narrativo: Pechino non ha pianificato il dominio delle terre rare a scopi di coercizione economica (come appare oggi, con le più recenti contromosse in reazione ai dazi di Trump), ma ha approfittato di una configurazione geologica favorevole per approfittare di quel vantaggio (32% delle riserve mondiali) e costruire una filiera interna ad alto valore aggiunto, dalla raffinazione fino alle applicazioni tecnologiche più rilevanti, come i magneti permanenti di terre rare (NdFeB), utilizzati in motori elettrici, turbine eoliche e sistemi militari come l’F-35. Lo ha fatto in una congiuntura economicamente favorevole – la globalizzazione e la delocalizzazione di queste attività e del know-how, in particolare dagli Stati Uniti – e politicamente più accondiscendente.

Due aspetti che, oggi, sono in forte ridiscussione e che chiamano in causa il dominio che la Cina esercita anche su altre materie prime critiche in una fase di profonda trasformazione tecnologica che riguarda l’energia, l’automotive, il digitale e altri settori per ora di nicchia (aerospazio, robotica), con i paesi del G7 che cercano di intercettare questi trend tecno-industriali. Sono spesso le tecnologie che seguono le materie prime o i materiali, e non viceversa. È per sovvertire questa regola – o forzarla a proprio vantaggio, come ha fatto Pechino – che le politiche industriali più recenti vanno inscritte.

Perché, e per chi, sono “critiche”?

La Cina è responsabile della maggior parte della raffinazione dei minerali in metalli e del loro consumo, impiegandoli nella manifattura di prodotti ad alto valore aggiunto. Capire il funzionamento di questa filiera è, dunque, fondamentale per fotografare vulnerabilità, interessi e ambizioni degli altri grandi paesi nella corsa alle tecnologie che più saranno avide di questi materiali. Non è un caso, dunque, che la riflessione sulla “criticità” delle materie prime, come concetto, sia fiorita in seguito all’incidente delle isole Senkaku. Da allora, poco è cambiato in termini di diversificazione delle filiere con l’eccezione del Giappone, che ha ridotto da circa l’80% al 45% la dipendenza dalla Cina sul totale delle importazioni, mentre USA e UE rimangono perlopiù dipendenti per i prodotti tecnologici come i magneti. Nel caso delle terre rare, dunque, la dipendenza si è già tramutata in ritardo tecnologico in alcuni dei settori downstream abilitati dal loro impiego.

La metodologia per determinare la criticità prevede un calcolo che include un mix di indicatori (economici, geopolitici, geologici) che, attraverso due indici ̶(rischio di approvvigionamento e importanza economica) restituiscono una matrice di criticità per le materie prime presa in considerazione. Ci riferiamo alla Lista dell’Unione Europea, che viene aggiornata ogni tre anni, o al più recente studio del Dipartimento dell’Energia americano che ha preso in considerazione solo i minerali rilevati per la decarbonizzazione. Nel caso dell’UE, il numero di materie prime classificate come “critiche” per una serie di settori economici, dal 2011 (anno della prima lista) all’ultima del 2023 è passato da 14 a 34.

Il diverso posizionamento industriale e manifatturiero ha evidenti riflessi sulla valutazione della criticità. All’interno del G7 si può notare una parziale sovrapposizione o, in alcuni e più rari casi, divergenza. Un caso eclatante è l’uranio, considerato critico al momento solo dal Giappone. Il diagramma qui sopra rende l’idea di come sia complicato un coordinamento e la messa a terra di iniziative per la sicurezza o diversificazione delle supply chain, considerando le differenti esigenze industriali e le politiche per stimolare il reshoringdi prodotti high-tech come batterie o semiconduttori.

Quali sono i rischi in un contesto geopolitico frammentato?

Secondo l’International Energy Agency, la transizione energetica comporterà un significativo aumento della domanda di minerali e metalli a livello globale, principalmente per batterie elettriche (automotive e stoccaggio stazionario), turbine eoliche e reti di trasmissione. L’ordine di grandezza varia a seconda del mercato di riferimento, con litio, grafite, nichel e rame che guideranno in termini di volumi e valori rispetto a segmenti più di nicchia come le terre rare o il cobalto. Quest’ultimo, per esempio, impiegato storicamente nell’industria delle batterie, è già in una situazione di sovra-offerta, considerando la tendenza a limitarne l’impiego per questioni etico-sociali e l’ascesa di batterie alternative che non ne prevedano l’impiego (litio ferro fosfato, LFP, o sodio).  Tuttavia, anche per altri sue impieghi strategici come le superleghe per jet e aerospazio (circa il 9% della domanda mondiale nel 2023) gli Stati Uniti hanno avviato dialoghi con la Repubblica Democratica del Congo – in una dinamica simile a quella ucraina – per barattare sicurezza militare in cambio di forniture.

Per rame e grafite, gli ordini di grandezza nei tre scenari temporali sono decisamente più importanti. Solo per il rame, secondo le stime IEA, è prevista al 2040 una domanda globale di 36 milioni di tonnellate, circa 30 volte la domanda mondiale di litio. Il rame è fondamentale per l’integrazione in nuove infrastrutture (reti elettriche) delle fonti rinnovabili, sebbene la concentrazione dell’offerta a livello geografico sia meno accentuata (l’amministrazione Trump sta considerando di imporre dazi sulle importazioni di rame oltre ad alluminio e acciaio) rispetto all’offerta di litio ad esempio.

In un contesto di crescenti tensioni commerciali e di incertezza sulle politiche climatiche e industriali green come l’Inflation Reduction Act (IRA) nell’era Trump, la sicurezza e diversificazione delle forniture potrebbero subire un duro colpo. I tempi di realizzazione di nuovi siti estrattivi variano a seconda del deposito: in media, possono passare anche dai 10 ai 15 anni dalle fasi di esplorazione fino all’effettiva produzione. Inoltre, gli investimenti per conto di capitale possono essere particolarmente onerosi, soprattutto per le società minerarie junior, con necessità di avere una certa visibilità della domanda. Nel mercato del litio, ad esempio, abbiamo assistito negli ultimi due anni ad un processo di progressiva razionalizzazione, con grandi multinazionali – come Rio Tinto – che hanno acquisito società minori per mettere le mani su asset minerari importanti e contando su più ampie disponibilità finanziarie. Discorso che si può estendere alle società cinesi che hanno acquisito nell’ultimo decennio, con il supporto delle banche di Stato, quote significative in progetti in Cile, Argentina, Zimbabwe e Australia al fine strategico di assicurarsi le forniture a lungo termine per le proprie esigenze industriali.

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Se a livello globale si prospettava una crescita significativa degli investimenti dal 2022, le dinamiche più recenti a livello geoeconomico potrebbero avere effetti potenzialmente distorsivi sui progetti, finanche sulla competitività e i costi delle tecnologie, come rileva l’IEA. Frammentazione commerciale, nazionalismo delle risorse, incertezza sui percorsi nazionali di decarbonizzazione e nuove priorità su altri settori, dunque, potranno influire notevolmente sulla geografia dell’offerta proiettata al 2030 e oltre, con impatti sulla diversificazione delle forniture. Soprattutto se non vi sarà un necessario rafforzamento delle industrie di trasformazione fuori dalla Cina: il CEO di Trafigura (società di trading ed estrazione mineraria) ha parlato di questa debolezza come una “questione di sicurezza nazionale” per l’Occidente, dal momento che senza forme di controllo pubblico sarà difficile competere con le industrie cinesi.

Perché alcuni metalli sono al centro della ‘guerra’ tecnologica tra Washington e Pechino?

Altri metalli, come il gallio, il germanio, il tungsteno o il titanio, hanno mercati di riferimento più di nicchia, come l’elettronica avanzata e l’industria della difesa, oltre ad essere estratti in alcuni casi come sottoprodotto di minerali più abbondanti. Queste particolari caratteristiche facilitano interventi di coercizione economica mirati, dal momento che in alcuni casi un singolo paese è responsabile della stragrande maggioranza dell’offerta mentre le applicazioni riguardano la sicurezza nazionale. Caso eclatante, quello del gallio di cui la Cina è responsabile per il 98% delle forniture a livello mondiale. Con un mercato minuscolo (qualche centinaio di tonnellate), il gallio viene estratto come sottoprodotto della bauxite, minerale primario per la produzione di alluminio di cui la Cina è leader mondiale, ed impiegato per esempio nella produzione di microchip di potenza al nitruro di gallio.

Negli Stati Uniti il Dipartimento della Difesa li definisce “strategici” – al pari delle ‘terre rare’ magnetiche come neodimio, praseodimio, disprosio, terbio e samario (tra quelle “pesanti”, di cui la Cina controlla tra il 95 e il 100% dell’offerta)– proprio per settori rilevanti per la sicurezza nazionale e della difesa. L’inclusione di alcuni di questi metalli all’interno di un insieme di prodotti sottoposti a scrutinio da parte del Ministero del Commercio (MOFCOM) per le esportazioni, attraverso l’implementazione di un regolamento che sottopone le industrie cinesi ad unregime di licenze per tecnologie dual-use, è un segnale che Pechino ha lanciato nelle fasi più acute della “guerra” tecnologica con gli USA sui semiconduttori, in risposta alle restrizioni del Bureau of Industry and Security (BIS). In realtà, un vero e proprio ban come nel 2010 sulle terre rare non v’è stato, dal momento che sui mercati è prevalsa una generale apprensione per la situazione di incertezza senza tuttavia effetti distorsivi negli scambi commerciali. Tuttavia, l’inclusione di alcuni materiali e leghe contenenti 7 elementi delle terre rare impiegati nella fabbricazione di magneti ad alte performance (tra cui samario e disprosio) sono un segnale che Pechino ha preso di mira le forniture su cui il Pentagono è più esposto, in risposta ai dazi di Trump. L’unica azienda attiva negli USA, MP Materials su cui ha investito il Dipartimento della Difesa, ha sospeso le spedizioni di concentrati di terre rare al suo partner cinese per l’ulteriore raffinazione, in quanto “commercialmente non razionale o allineato con gli interessi nazionali degli Stati Uniti”. I piani di reshoring della filiera procedono, ma a ritmi non così sostenuti: la produzione prevista di magneti NdFeB dallo stabilimento MP di Forth Worth, per ora, è di circa 1.000 tonnellate, ovvero meno dell’1% della domanda globale e soprattutto di circa 400 volte inferiore rispetto alla capacità cinese.

La scelta da parte delle autorità cinesi di questi specifici materiali è da interpretare come un avvertimento nei confronti di Washington: gli Stati Uniti sono dipendenti dalla Cina per oltre il 50% del fabbisogno su metalli per l’industria della difesa come tungsteno, titanio, antimonio. Mentre su altri, come la grafite, è emersa la preoccupazione per la dipendenza anche dei paesi europei che puntano alla localizzazione della filiera delle batterie elettriche (la grafite, se si esclude il silicio metallico come alternativa nella nuova generazione di batterie, è la componente degli anodi ma su cui Pechino controlla il 90% dell’offerta di grafite sintetica). Questa tipologia di restrizioni su materiali e tecnologie è una chiara inversione di tendenza rispetto al passato, quando la Cina ha fatto leverage sull’accesso al suo vasto mercato per il trasferimento tecnologico da altri paesi. Ora invece, in settori come batterie ed EV in cui il gap tecnologico è ampio, Pechino vuole presidiare gli investimenti esteri delle sue aziende per evitare la dispersione del suo know-how, oltre a indirizzare “selettivamente” i paesi destinatari sulla base di questioni politiche, come testimonia la scelta di CATL di costruire in Spagna (paese che si è astenuto dal votare i dazi di Bruxelles verso le auto elettriche cinesi) una gigafactory per batterie LFP.

Battery Metals: il ritardo degli USA, ma soprattutto dell’UE

Unione Europea e Stati Uniti scontano con la Cina e altri paesi asiatici un ritardo considerevole nell’approvvigionamento di metalli adibiti alla produzione delle batterie elettriche. Nel caso del litio, sono rispettivamente dipendenti per il 79% e oltre il 50% dal Cile. L’inclusione del litio nella lista di materie prime sottoposte a controlli sull’export non riguarda la possibilità che Pechino decida di vietare l’esportazione dei composti chimici (che genererebbe incertezza per le proprie industrie e quelle coreane e giapponesi), ma piuttosto controllare le tecnologie per la processazione adeguata alla manifattura dei catodi, componente chiave delle batterie elettriche. Queste restrizioni potrebbero avere impatti sulla capacità di trasformazione al di fuori della Cina, che rimane il vero punto debole. Secondo le stime di S&P Global Commodity Insights, le importazioni negli USA di idrossido e carbonato di litio sono crollate di quasi il 30% su base annua alla fine del 2024: questo calo può essere attribuito al fatto che i produttori hanno aumentato le importazioni nei tre trimestri precedenti per via dell’incertezza tanto sull’IRA quanto su possibili effetti distorsivi dei dazi con l’arrivo di Trump. Le operazioni con sede in Argentina hanno contato per il 60% delle importazioni USA nel 2024, seguite dal Cile (38,5%). Il destino della “sovranità mineraria” degli USA rimane fortemente legato al destino dell’IRA: senza una chiara visibilità della domanda nel paese, i nuovi progetti estrattivi o di raffinazione che riguardano questi minerali potrebbero essere costretti ad un ridimensionamento.

Anche per via dei prezzi: dopo una tendenza generale al rialzo dal 2019 al 2022, si è assistito ad un poderoso calo nel 2023 che ha riguardato i prezzi del carbonato di litio, l’idrossido di litio, e il solfato di nichel impiegati per le batterie. Nel caso delle fonti di litio, ha contribuito particolarmente un raffreddamento della domanda insieme all’ingresso sul mercato di forniture dalle miniere di lepidolite in Cina, stimolate dai prezzi elevati del 2022 ed entrate a regime nei mesi successivi. Se da un lato questa discesa è sintomo anche della sovracapacità produttiva cinese e nel complesso risulta positiva per l’ulteriore riduzione dei costi delle batterie, dall’altra rende più complesso l’emergere di attività industriali fuori dalla Cina, soprattutto se rimangono incertezze sul mercato midstream.  

Le dinamiche dei prezzi saranno dunque decisive nel determinare la sostenibilità finanziaria dei progetti greenfield nei prossimi anni, come quelli su cui vuole puntare la Commissione europea per perseguire gli obiettivi al 2030 e oltre, in un’ottica di autonomia strategica, fissati con l’European Critical Raw Materials Act.

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Quale risposta in UE? Svelati i primi “Progetti Strategici”

Proprio per questo, la Commissione europea ha svelato di recente la prima tranche di progetti classificati come “strategici” tra più di 170 candidati. Sono stati selezionati 47 progetti tra estrazione, raffinazione (alcuni progetti sono integrati) e riciclo e riguardano 14 delle 17 materie prime classificate come “strategiche” dalla Commissione. Questi depositi e impianti, una volta attivi – nel caso delle miniere, godranno di un iter di autorizzazione burocratico e ambientale accorciato ad un massimo di 27 mesi, mentre per la trasformazione o il riciclo di 15 mesi – sono ritenuti cruciali per colmare il gap tra domanda e offerta in Europa secondo i target dell’EU CRMs Act. Di questi, 9 sono localizzati in Francia, 9 lnei Paesi Scandinavi (ricchi di risorse/riserve, oltre che depositari di tecnologie e know-how minerario), 8 nell’Europa dell’Est, 7 in Spagna, 4 in Italia e Portogallo, 3 in Germania e altri tre tra Belgio ed Estonia.

Non casualmente, 30 dei 47 progetti riguardano a vario titolo i cosiddetti battery minerals, ovvero quei minerali fondamentali per la manifattura delle batterie al litio nella forma chimica predominante: parliamo appunto di litio, cobalto, grafite, nichel e manganese e dei loro composti chimici utilizzabili nelle batterie. Poco meno della metà (22 progetti) riguarda il litio (minerale su cui l’UE è al 100% dipendente dalle importazioni), 11 la grafite (su cui pesano gli export control della Cina), 12 il nichel (metallo su cui vi è una strettissima alleanza industriale tra Indonesia e Cina) e 10 per il cobalto.  Eurometaux, l’associazione di settore, aveva stimato che l’UE avrebbe avuto necessità di aprire almeno 10 nuove miniere, 15 nuovi impianti di lavorazione e 15 impianti di riciclaggio per le principali materie prime “strategiche” entro il 2030 (ricordiamo che nessuna miniera è stata aperta negli ultimi 15 anni in Europa), e di finanziare 15 progetti legati nei Paesi terzi attraverso la Global Gateway. Con questa prima selezione, Bruxelles ha avviato la seconda fase della sua strategia mineraria: ora servirà supportare questi progetti fino alla commercializzazione.

In primo luogo, attraverso finanziamenti. Nel luglio 2024, l’UE e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) hanno firmato, sotto l’egida di InvestEU, un accordo su un nuovo strumento a sostegno dell’esplorazione mineraria, con l’obiettivo di mobilitare circa 100 milioni di euro di fondi. L’UE contribuisce con 25 milioni di euro da Horizon Europe, la BERS fornirà altri 25 milioni di euro e lo strumento congiunto mira a mobilitare altri 50 milioni di euro. Alcuni Stati membri, come la Francia, la Germania e l’Italia, hanno istituito fondi sovrani per incrementare l’offerta di materie prime strategiche rispetto alle esigenze industriali. Per questi progetti sul suolo continentale, sono previsti 22 miliardi € in spese per conto di capitale da parte delle società coinvolte, che verranno probabilmente supportati – su questo Bruxelles non ha dato ulteriori indicazioni – con interventi di de-risking da parte delle istituzioni finanziarie europee come la BEI.

Come previsto dal Regolamento, potranno essere selezionati anche progetti al di fuori dell’UE, ma dovranno dimostrare di contribuire al quarto pilastro, ovvero garantire la diversificazione delle importazioni (non più del 65% del fabbisogno UE per ogni materia prima strategica proveniente da un singolo paese). Paesi candidati saranno sicuramente quelli con cui la Commissione ha siglato 14 partnership, tra cui Australia, Canada, Cile e Argentina insieme a potenziali paesi nel vicinato, come Norvegia e Serbia, oltre all’Ucraina, e nella Repubblica Democratica del Congo, Namibia e Kazakhstan.

Tuttavia, come sottolineato anche nel report di Mario Draghi, servirà tenere conto dello stato d’implementazione del CRM Act anche in sinergia con il Net Zero Industry Act, il Clean Industrial Deal e in generale della supply chain. In particolare,  il settore automotive e quello delle batterie: la visibilità della domanda e la certezza degli investimenti verso l’elettrificazione saranno essenziali per dare a questi progetti strategici ragion d’essere. Oltre al fatto che serviranno capacità produttive nei segmenti midstream della filiera, come catodi e anodi. L’errore potrebbe essere quello di focalizzarsi solo sul lato dell’offerta, senza garantire che la domanda industriale segua in un circolo virtuoso che abbracci tutta la supply chain in un’ottica di vera autonomia strategica. Altrimenti, il rischio è che si passi pesantemente dalla dipendenza sulle materie prime ad un ritardo tecnologico incolmabile. Le ‘terre rare’ insegnano.

L’Ucraina non è la soluzione alla criticità

Nonostante l’accordo tra Washington e Kiev getti delle basi più eque per il possibile sfruttamento delle risorse minerarie, rimangono alcuni elementi di incertezza su come e quanto l’Ucraina possa diventare un fornitore duraturo degli USA: la situazione politico-militare (che è a sua volta legata alle rassicurazioni per la sicurezza del Paese) influirà molto sulla “fiducia” degli investitori, così come lo stato delle infrastrutture del paese che possano riconnetterlo con i mercati e i clienti finali. Inoltre, è possibile che si guardi a quello che le industrie ucraine già offrivano (titanio) di interesse per l’industria aerospaziale e della difesa, e al potenziale per metalli e minerali come litio, grafite e manganese cruciali per la produzione di batterie elettriche. La capacità dell’Ucraina di entrare in queste filiere dipenderà molto dal livello e dalla tipologia di supporto di USA e alleati.

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