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Le importazioni, il Pil e gli errori di misurazione


Il calo del Pil Usa nel primo trimestre è stato per lo più attribuito a un’impennata delle importazioni prima dell’arrivo dei dazi. Ma i dati devono essere interpretati con cautela perché soggetti a revisioni. Bisogna saper andare oltre la mera contabilità.

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L’abbaglio contabile

Nel primo trimestre del 2025, l’economia statunitense ha registrato una contrazione del Pil dello 0,3 per cento a tasso annualizzato, segnando la prima flessione dal 2022. Il calo è stato attribuito principalmente a un’impennata delle importazioni, aumentate del 41,3 per cento, in seguito all’annuncio di nuovi dazi da parte dell’amministrazione Trump. Le aziende hanno anticipato gli acquisti di beni esteri per evitare l’imposizione di tariffe più elevate, un fenomeno noto come “front-loading”.

Molti commentatori, anche specializzati, hanno attribuito la contrazione del Pil americano proprio alla crescita inusuale delle importazioni. Si tratta però di un abbaglio contabile. Cerchiamo di spiegare perché.

Nell’equazione di contabilità del prodotto interno lordo (Pil) di un’economia aperta, il Pil viene espresso secondo la seguente identità:

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Pil = Consumi + Investimenti + Spesa Pubblica + Esportazioni – Importazioni

Perché le importazioni compaiono con il segno negativo? Vuol dire che un loro aumento fa diminuire il Pil? È importante chiarire che l’identità contabile misura la produzione interna di beni e servizi. Quando calcoliamo i consumi e gli investimenti (tralasciamo la spesa pubblica che è per lo più diretta a beni domestici), questi includono sia beni prodotti internamente che beni importati. Ad esempio, tra i consumi può comparire l’acquisto di una Volkswagen da parte di un consumatore americano. Oppure la stessa automobile può rimanere, per un certo periodo, invenduta nell’autosalone, nel qual caso compare nella contabilità nazionale come investimento in scorte. Possiamo quindi migliorare l’equazione sopra riconoscendo che consumi = (consumi domestici + consumi di beni importati). E per gli investimenti: investimenti = investimenti domestici + investimenti in scorte.

Sarà quindi vero che le importazioni totali (l’ultimo termine a destra) sono uguali alla somma di “consumi di beni importati” e di “investimenti in scorte”. Tenendo conto di questo, proprio per contabilizzare il Pil strettamente come prodotto “interno” lordo, l’effetto delle importazioni sul Pil è nullo.

Che cosa è successo dunque al Pil americano nel primo trimestre del 2025? La figura 1 mostra le variazioni tendenziali (anno-su-anno) e congiunturali (trimestre-su-trimestre a tassi annualizzati) della componente “di fondo” (o “Final Sales to Private Domestic Purchasers”) del Pil americano. Per componente “di fondo” nel caso del Pil si intende al netto delle parti più volatili (scorte ed esportazioni nette) e della spesa pubblica. Come mostra la figura 1, la componente “di fondo” è cresciuta ad un tasso annualizzato del 3 per cento nel primo trimestre del 2025, in linea con la media dei due anni precedenti. Detto in altri termini, l’economia americana è entrata nello shock dei dazi con il vento in poppa, un vento già presente lo scorso trimestre. Ovvero, depurato dai problemi che stiamo per discutere, l’economia americana nel primo trimestre del 2025 ha continuato a crescere senza troppi problemi.

Ma allora, se la componente di fondo è rimasta stabile e dato che le importazioni sono neutre per l’algebra del Pil, come è possibile che il dato del primo trimestre sia negativo? La ragione è duplice. Primo, nel primo trimestre la spesa pubblica federale è calata (con contributo dello 0,33 per cento alla variazione congiunturale del Pil); ma questo da solo non spiega il rallentamento. La seconda ragione, e questo è l’aspetto chiave, il dato del Pil sembra essere distorto da un problema di misurazione. Dato che la componente di fondo è rimasta stabile, l’algebra del Pil imporrebbe che il cambio dell’investimento privato e delle scorte sommassero a un numero vicino all’aumento delle importazioni (333,3 miliardi). In realtà, le scorte sono aumentate di 131,3 miliardi e gli investimenti privati di 80,9 miliardi, ovvero molto meno di quanto implicato dall’aumento delle importazioni. In altri termini, mancano all’appello molti miliardi di dollari. Al momento non è nota l’origine dell’errore di misurazione (alcuni analisti, per esempio, hanno ipotizzato che le scorte di prodotti farmaceutici siano largamente sottostimate). La misurazione delle scorte è soggetta a diversi possibili errori (tempistica e registrazione contabile, valutazione a prezzi correnti o di produzione, parziale copertura da parte delle imprese, distinzione difficile tra produzione invenduta o accumulo intenzionale), rendendola una delle componenti più volatili del Pil. Errori di misurazione come quello appena descritto sono comuni nei report delle agenzie di statistica; la peculiarità in questo caso è la dimensione, cosa che però non stupisce data la grandezza dello shock da maggiori importazioni. Per questo, le stime preliminari sono generalmente riviste, soprattutto negli Stati Uniti, una volta che il Bureau of Economic Analysis (Bea) ha accesso a dati più completi. Per dare un’idea, basandosi sulle revisioni storiche, si può ipotizzare (si veda l’economista Jason Furman qui) che il calo dello 0,3 per cento pubblicato dal Bea per il primo trimestre del 2025 sarà rivisto come trimestre in espansione con il 49 per cento di probabilità.

L’effetto delle importazioni sull’economia

Se l’effetto delle importazioni sul Pil è, per costruzione, nullo, questo vale solo ai fini di identità contabile. Ciò non vuol dire che le importazioni non abbiano un effetto in realtà positivo (e non negativo secondo il possibile abbaglio contabile) sulla crescita economica. Ad esempio, molte importazioni sono beni intermedi nella produzione di beni domestici destinati all’esportazione (i microchip importati dalla Corea del Sud incorporati nella produzione di automobili). Supponiamo che la valuta di un paese si deprezzi (per esempio perché la politica monetaria diventa più espansiva). Ciò induce un aumento di domanda di esportazioni (che sono meno costose per i consumatori esteri), e quindi un necessario aumento della domanda domestica di beni intermedi importati. Tutto questo accresce il Pil. Alternativamente, una variazione di preferenze può indurre i consumatori domestici a sostituire beni prodotti internamente con beni importati. In questo caso il conseguente aumento di importazioni riduce il consumo di beni interni e quindi riduce il Pil domestico.

In entrambi i casi si tratta di relazioni causali tra importazioni e Pil (che sottintendono scelte vincolate da parte di consumatori e imprese), di possibile segno opposto sul Pil, ben diverse da un’identità meramente contabile come descritto sopra.

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I dati opposti dell’Eurozona

A fare da contraltare ai dati americani, il dato del Pil dell’Eurozona del primo trimestre ha sorpreso in positivo. In realtà, anche in questo caso, il dato è probabilmente distorto, anche se in modo diverso e opposto a quello americano. Per capire il perché, la figura 2 mostra l’andamento delle esportazioni irlandesi verso gli Stati Uniti che sono esplose a gennaio e febbraio. Per questo il dato del Pil irlandese nel primo trimestre (+3,2 per cento non annualizzato) è da prendere con cautela perché è probabile che nei prossimi trimestri il flusso commerciale rallenti molto. Per la stessa ragione, quindi, il dato del Pil dell’Eurozona nel suo complesso è probabilmente distorto verso l’alto nel primo trimestre e non saremmo stupiti se nel secondo i dati vedessero un ribasso.

chart visualization

In conclusione, mai come oggi i dati devono essere interpretati con cautela poiché soggetti a errori di misurazione e distorsioni nella correzione della stagionalità molto più grandi del periodo pre-Covid. Non solo. Mai come oggi appare importante saper distinguere tra ciò che possono (o non possono) dirci le mere identità contabili, e ciò che invece significano le relazioni di causalità economica, la cui interpretazione richiede un salto di qualità dell’analisi ben al di là della mera contabilità.

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Tommaso Monacelli

monacelli Tommaso Monacelli è professore ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano, e Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra. Ha ottenuto il Ph.D. in Economia presso la New York University, ed è stato in precedenza assistant professor a Boston College e professore associato all’Università Bocconi. E’ associate editor di riviste scientifiche internazionali, tra cui il Journal of the European Economic Association, il Journal of Money Credit and Banking, e la European Economic Review. E’ stato adjunct professor presso la Columbia University, visiting professor presso la Central European University, e research consultant per Bce, Ocse, IMF, e Riksbank. I suoi interessi di ricerca riguardano la teoria e politica monetaria e la macroeconoma internazionale.

Riccardo Trezzi

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Riccardo Trezzi ha fondato UnderlyingInflation.com, una società di consulenza macroeconomica. E’ stato economista alla Federal Reserve di Washington DC e alla Banca Centrale Europea (BCE) a Francoforte. Insegna un corso di macroeconomia all’Università di Pavia. Ha ottenuto il PhD in Economics dall’Università di Cambridge, in Inghilterra.

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